Carla Benvenuto

Com’è noto, l’articolo 545 del codice di procedura civile dispone che le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà [cosiddetta impignorabilità del minimo vitale – ndr]. In pratica la pensione può essere pignorata solo per la parte che eccede il minimo vitale, quantificato come equivalente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà (attualmente la quota impignorabile della pensione si aggira, dunque, intorno ai 750 euro).

Inoltre, l’articolo 72 ter del dpr 602/1973, che detta disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito, stabilisce che le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione in misura pari ad un decimo per importi fino a 2.500 euro e in misura pari ad un settimo per importi superiori a 2.500 euro e non superiori a 5.000 euro. Resta ferma la misura del 20% (un quinto), se le somme dovute a titolo di stipendio superano i cinquemila euro.

Il Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 545 del codice di procedura civile nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, e, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento di crediti tributari.

I giudici viterbesi, insomma, si chiedevano se fosse incostituzionale applicare l’impignorabilità del minimo vitale solo alla pensione e non anche allo stipendio e, in via subordinata, perché non applicare anche al pignoramento dello stipendio conseguente a debiti di natura ordinaria (assunti con banche, finanziarie e privati) le stesse (più favorevoli per il lavoratore) aliquote previste per il pignoramento dello stipendio quando originato dall’omesso o insufficiente pagamento delle imposte sul reddito.

Con la pronuncia 70/16, la Consulta ha ricordato la propria sentenza 248/15, con la quale aveva già stabilito che la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore e che, per tale motivo, non si può ritenere costituzionalmente illegittima la norma che prevede l’impignorabilità assoluta del minimo vitale solo per le pensioni, escludendo gli stipendi e i salari più esigui da tale beneficio.

Ha poi respinto per manifesta infondatezza la questione di legittimità inerente le diverse quote di pignorabilità applicate alla retribuzione stipendiale quando il prelievo è originato da crediti di natura ordinaria o esattoriale.


Per visualizzare l'intera discussione, completa di domanda e risposta, clicca qui.