Quando il richiamo al lavoratore sconfina nell’ingiuria

Il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione consente di richiamare, ma non di ingiuriare il lavoratore dipendente o di esorbitare dal limiti della correttezza e dei rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un'intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano più che all'azione censurata, alla figura morale dei dipendente, traducendosi in un attacco personale sui piano Individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica.

Questo il principio di diritto affermato dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione, nella sentenza n.

35013/15, nella quale viene individuato, in tema di ingiuria consumata nel luogo di lavoro, la linea di discrimine tra i casi in cui le critiche del “capo” sono rivolte all’azione del lavoratore da quelli in cui gli epiteti si dirigano alla sfera personale del dipendente, esorbitando dal legittimo richiamo per arrivare all’area del penalmente rilevante.

Quindi, affinché una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell'insulto a quest'ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell'errore, sottolineino l'eventuale trasgressione realizzata. Se invece le frasi usate integrano disprezzo per l'autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, esse, in quanto dirette al soggetto, hanno potenzialità ingiuriosa.

27 Agosto 2015 · Tullio Solinas




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