Diciamo che in teoria una situazione come quella che andiamo ad esaminare non dovrebbe mai verificarsi posto che l’articolo 23 del DPR 180/1950 stabilisce che l’impiegato o il salariato cui manchino, per conseguire il diritto al collocamento a riposo, a norma delle disposizioni in vigore, meno di dieci anni, non può contrarre un prestito superiore alla cessione di tante quote mensili quanti siano i mesi necessari per il conseguimento del diritto al collocamento a riposo. Ma, come spesso succede, la pratica è tutta un’altra storia.
Se il datore di lavoro è la Pubblica Amministrazione (PA), la trattenuta verrà perpetuata dall’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS): altrimenti, il datore di lavoro sarà costretto a prelevare un quinto del Trattamento di Fine Rapporto (TFR) da destinare al cessionario.
Se il datore di lavoro non è la PA ed il prestito dietro cessione del quinto dello stipendio è stato notificato al gestore del fondo di previdenza complementare, anche quest’ultimo, in assenza di liberatoria concessa dal cessionario per estinzione anticipata della cessione, dovrà trattenere il montante netto maturato dal cedente (il debitore) da corrispondere, fino a soddisfacimento del credito, al cessionario (la banca erogatrice del prestito dieto cessione del quinto).
Qualora dovesse residuare ancora qualcosa da rimborsare, cedente e cessionario potranno accordarsi per l’estinzione anticipata, per un piano di rientro rateale oppure per un prestito dietro cessione del quinto della pensione finalizzato, integralmente o parzialmente, ad estinguere il residuo del prestito dietro cessione del quinto dello stipendio.
In assenza di un accordo il cessionario potrà procedere al pignoramento della pensione.
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