Ornella De Bellis

Il compenso per l’attività giudiziale dell’avvocato è pattuito, di regola, per iscritto, al momento del conferimento dell’incarico professionale ed è relativo, sostanzialmente, a diverse fasi che vanno dallo studio della controversia (la cui incidenza sull’onorario dipende soprattutto dalla complessità della questione affrontata), alla preparazione degli atti introduttivi e di costituzione in giudizio, passando per la preparazione delle memorie fino a giungere all’espletamento dei compiti richiesti al legale nella fase decisionale vera e propria.

I 1.200 euro già dilazionati, dunque, possono rappresentare solo un anticipo dovuto al professionista per le spese sostenute (fra cui il contributo unificato o CU e le spese di notifica degli atti di citazione) e l’onorario richiesto per la fase di studio e di costituzione in giudizio: al momento della revoca del mandato l’avvocato, dunque, preparerà la parcella dettagliando i compensi per l’attività effettivamente svolta e se non si ha la possibilità di confrontare la pretesa con il preventivo stilato al momento del conferimento dell’incarico, l’unica capacità di controllo del cliente è limitata alla verifica delle attività effettivamente svolte, non potendo nulla sindacare sulle spese documentate e sul compenso relativo alla fase di studio della controversia.

Al massimo, in mancanza di accordo tra avvocato e cliente, le parti possono rivolgersi al consiglio dell’ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione e, su richiesta del professionista, il consiglio dell’ordine può rilasciare un parere sulla congruità della pretesa dell’avvocato in relazione all’opera prestata.

Ma, inutile farsi illusioni sul parere del consiglio dell’ordine in merito alla congruità della parcella: tale parere rappresenterà, comunque, il documento in base al quale l’avvocato potrà poi ricorrere al giudice per ottenere un decreto ingiuntivo a fronte di un eventuale inadempimento del cliente.


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