Stefano Iambrenghi

Nulla vieta che un soggetto lasci l’abitazione dove convive con la propria madre per andare a vivere da solo in un appartamento preso in affitto: si tratta di un’aspirazione comune per un giovane che voglia evitare di essere additato e classificato come un bamboccione (peraltro, negli anni ’80, anche Jerry Calà cominciò a diffondere e propagandare un simile stile di vita: andare a vivere da soli era il sogno dei giovani di allora).

Naturalmente, il reddito, percepito grazie al rapporto di lavoro con contratto di collaborazione, deve essere sufficiente a coprire le spese per pagare almeno il canone di locazione pattuito (e registrato presso l’Agenzia delle Entrate) e le utenze per la fornitura di energia ed acqua. Infatti, anche se il surplus negativo dei costi rispetto al reddito effettivamente percepito potrebbe essere compensato da donazioni familiari, si sostanzierebbero gli elementi teorici per un eventuale accertamento fiscale con conseguenti possibili e fastidiosi effetti collaterali.

Ma, tanto premesso, se il trasferimento di residenza non è fittizio, se l’appartamento viene arredato per il minimo comfort necessario a condurvi una permanenza dignitosa, non vedo come lei possa rischiare la galera presentando istanza per fruire, come tanti single, del reddito di cittadinanza.

Sicuramente il fatto di costituire un nucleo familiare autonomo, formato da un unico componente, faciliterebbe oltremodo la sua corsa verso l’ottenimento dell’agognato reddito di cittadinanza. Potrebbe aspirare ad un contributo al pagamento dell’affitto fino a 250 euro/mese (naturalmente ove il contratto preveda un canone di locazione uguale o maggiore) ed una integrazione al reddito mensile netto percepito fino a 500 euro/mese (naturalmente qualora percepisse una busta paga mensile netta minore di 500 euro).


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