A noi qualcosa non torna: l’articolo 545 del codice civile è chiaro in tal senso nel momento in cui afferma che le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato. Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito.
Poichè riteniamo che la magistratura non possa incorrere in una così palese violazione del codice di procedura civile, neanche le suggeriamo di ricorrere, con il supporto tecnico legale di un avvocato, al giudice delle esecuzioni del tribunale territorialmente competente.
Dobbiamo necessariamente immaginare che lei abbia avuto in corso, nel passato, una cessione del quinto e che poi abbia presentato le dimissioni o sia stato licenziato senza che il prelievo del quinto dal Trattamento di Fine Rapporto (TFR) avesse potuto soddisfare il cessionario (l’altra finanziaria). In questa ipotesi, possono coesistere il primo prelievo (che va inteso come una semplice continuazione temporale del rimborso relativo al prestito ottenuto dietro cessione del quinto e non come pignoramento) e la seconda trattenuta del 20% dello stipendio che, così, assume i connotati di unico pignoramento dello stipendio per crediti ordinari.
L’articolo 45 del Decreto del Presidente della Repubblica (DPR) 180/1950 dispone infatti che, quando per cessazione o interruzione del servizio o per qualsiasi altra causa, l’ammortamento di un prestito per cessione del quinto non possa essere eseguito nelle condizioni prestabilite, la finanziaria che ha concesso il prestito può recuperare il debito residuo dallo stipendio comunque spettante al debitore.
Ci faccia conoscere i dettagli, che siamo curiosi.
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