Innanzitutto, il creditore ha svolto un servizio sociale, contribuendo ad estirpare dal circuito commerciale di beni e servizi un soggetto giuridico che creava solo disvalore, accumulando anche debiti fiscali (che non avrebbe mai regolato) a danno dell’intera collettività, e potenzialmente prestandosi, nella situazione di irrimediabile insolvenza in cui era caduta, a poco trasparenti operazioni di riciclaggio se non di truffa e come veicolo collettore di IVA non versata.
Ma, dubito che il creditore avesse avuto intenti così nobili: passando allora a motivazioni più “terra terra”, è ovvio che se egli valuta l’esposizione debitoria della società ormai irrimediabilmente compromessa, riterrà meglio spartire in quattro, che in quarantotto, quel poco o quasi niente che il debitore (la società) possiede, dal momento che non si può escludere la possibilità di ampliamento, nel tempo, della platea di creditori che potrebbero insinuarsi in un inevitabile procedura fallimentare.
Peraltro, seguendo il suo paradossale ragionamento, si dovrebbe tollerare che una società che crea valore solo per l’amministratore stipendiato, ma a suon di debiti conseguiti con forniture e imposte non pagate, resti libera di scorrazzare ed infettare il mercato, creando ulteriori danni a società sane che offrono la possibilità di stipendio a numerosi impiegati ed operai con le proprie famiglie.
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