Stefano Iambrenghi
L’economia dovrebbe esistere solo per garantire a tutte le persone ciò di cui hanno bisogno.
In un libro di qualche anno fa l’economista Robert Frank ha denunciato la «febbre del lusso» e la tendenza all’iper-consumo come inedita e temibile patologia del nuovo secolo. Un tempo riservati a piccole cerchie di élite, i cosiddetti luxury goods (un abito firmato, una vacanza ai Caraibi, una sofisticata apparecchiatura elettronica) sono oggi diventati un’opzione accessibile ad ampie fasce di popolazione. Il desiderio di questi beni tende però a provocare una vera e propria rincorsa «posizionale» fra individui e gruppi sociali: ciascuno aspira a consumare un po’ di più del suo vicino o del suo gruppo di riferimento e si sente gratificato solo se riesce a migliorare o almeno a mantenere la propria posizione relativa. Sappiamo che questa escalation consumistica ha poggiato su comportamenti spesso irresponsabili dal punto di vista finanziario, grazie a carte di credito e mutui ipotecari che hanno consentito a moltissime persone di spendere al di là delle proprie reali disponibilità. La crisi in cui siamo precipitati è almeno in parte connessa anche a questi comportamenti.
La soluzione? Elaborare di una vera e propria etica laica della frugalità, intesa come capacità di consumare (e più in generale di vivere) in modo misurato, bilanciando fra di loro diversi valori, obiettivi e strumenti, in base a criteri di «giusta proporzione». Epicuro sosteneva che il modo migliore per raggiungere la felicità fosse quello di semplificare bisogni e aspirazioni. E a chi voleva entrare nel suo «giardino dei piaceri» egli imponeva innanzitutto una prova di frugalità: restare fuori dal cancello per alcuni giorni, con una dieta di pane ed acqua.
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