DOMANDA
Ho un contratto di lavoro semi smartworking, cioè 2 gg casa e 3 in presenza: premetto che il lavoro che svolgo si può fare totalmente da casa tanto che a volte, per necessità, l’azienda stessa ce lo concede durante l’anno.
Nell’ultimo periodo purtroppo ho iniziato ad accusare un forte stress psicofisico causato dal lungo tragitto casa lavoro di circa 250 km.
Mi rendo conto avendo rischiato più volte di fare un frontale per i continui colpi di sonno che è insostenibile questa vita.
Vorrei chiedere all’azienda di provare un compromesso alternando le settimane in modo da avere più riposo tra una presenza in sede e l’altra.
Nel frattempo è stato indispensabile rivolgermi ad uno specialista per calmare il mio stato d ansia e agitazione.
Questo influisce negativamente anche nella sfera familiare che con 2 figli minori è davvero dura.
Ho 50 anni e non voglio perdere questo lavoro.
Potrebbero quindi dichiararmi non idoneo al lavoro sebbene io lo sappia svolgere?
RISPOSTA
Gli effetti del pendolarismo sul benessere fisico e sociale possono essere vari e preoccupanti, specie quando il tragitto casa lavoro impegna tempi e/o percorsi lunghi. Lo stress da pendolarismo può essere combattuto dal datore di lavoro e dalle organizzazioni sindacali aumentando (quando possibile) il tempo della prestazione flessibile resa dal dipendente in smart working, modalità che consente di lavorare da casa secondo il criterio degli obiettivi fissati da lavoratore e azienda e non della mera presenza in ufficio del dipendente.
Nel caso esposto, l’opzione migliore da scegliere è quella di trovare un accordo bonario con la parte datrice di lavoro, magari anche con una trattativa supportata da documentazione medica e mediata dalle organizzazioni sindacali (se presenti), finalizzata ad ottenere un considerevole aumento delle giornate in cui rendere la prestazione lavorativa in smart working. Si sconsiglia, nel modo più assoluto, di insistere con l’assentarsi in malattia, con la presentazione all’INPS di certificati medici attestanti patologie potenzialmente invalidanti nella mansione svolta, una strategia che potrebbe comportare anche la risoluzione del rapporto di lavoro, per motivi non necessariamente legati al superamento del periodo di comporto (non è possibile quantificare la percentuale del rischio che si corre).
Anche se il datore di lavoro non può conoscere la diagnosi specifica che ha giustificato l’assenza in malattia, egli può prendere visione tramite il portale dell’INPS dell’attestato di malattia in cui la diagnosi anche se non è esplicitata, dà, comunque, idea della natura del problema, e la normativa vigente obbliga il datore di lavoro – soprattutto in seguito ad una serie di certificati medici relativi a patologie potenzialmente invalidanti presentate all’INPS – anche a tutela del lavoratore stesso, di far accertare, tramite il medico competente nell’ambito della sorveglianza sanitaria, l’idoneità del dipendente alla mansione specifica.
Al termine della visita medica, sulla base delle risultanze della stessa, il medico esprimerà un giudizio relativo alla mansione specifica che potrà essere: di idoneità; di idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni; di inidoneità temporanea (con precisazione dei limiti temporali di validità); di inidoneità permanente che potrà essere confermato da un’apposita commissione medica dell’ASL.
Il giudizio di inidoneità, anche temporanea, espresso dalla commissione medica competente non vincola il giudice del lavoro che, su ricorso del lavoratore, potrà giungere a conclusioni diverse tramite il proprio CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio).
La buona notizia è che qualora la commissione competente emettesse nei confronti di un dipendente un giudizio di inidoneità temporanea alle mansioni (giudizio confermato dal giudice del lavoro su un eventuale ricorso del lavoratore), non vi sarebbe, per il datore di lavoro, possibilità diretta di licenziamento, dal momento che trattasi di una patologia transitoria.
Ma l’articolo 42 del decreto legislativo 81/2008, stabilisce che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
La cattiva notizia consiste nell’evenienza che, in assenza di mansioni disponibili (come quasi sempre accade) alle quali il dipendente possa essere adibito, il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
5 Settembre 2024 - Tullio Solinas
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