DOMANDA
Il contratto di convivenza di fatto stipulato da mia madre con il suo compagno, prevede che alla morte del proprietario della casa di comune abitazione (in questo caso mia madre) il convivente avrà diritto di rimanere nell’appartamento per alcuni anni.
Tramite scrittura privata loro hanno deciso di aggiungere “finché lui lo riterrà opportuno” privando me (unica figlia ed erede) della possibilità di usufruire della casa.
Vorrei sapere se la condizione economica dell’erede (nel mio caso ad esempio la mancanza di un lavoro e di una casa di proprietà) può fare annullare tali diritti del convivente (il quale possiede comunque ampiamente i mezzi per poter provvedere a sé stesso, oltre ad avere due figli da precedente matrimonio i quali potrebbero farsene carico)
RISPOSTA
Con riferimento al diritto di abitazione (inteso vita natural durante), in particolare, per il convivente di fatto superstite occorre far riferimento all’articolo 1, comma 42, della legge 76/2016 (regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) secondo il quale in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni (in pratica per un lasso di tempo ragionevolmente sufficiente a consentite al convivente superstite di provvedere in altro modo a soddisfare l’esigenza abitativa).
Cerchiamo, nel prosieguo, di spiegare il perchè di questa limitazione.
La concessione del diritto di abitazione effettuata in vita dal disponente tramite scrittura privata configura una donazione. Ora, nella successione di una vedova con figlia, quest’ultima ha diritto al 50% della massa ereditaria, mentre il 50% è disponibile alla vedova per le donazioni effettuate in vita.
Normalmente, nella successione legittima (senza testamento) di una vedova con una figlia, in presenza di donazioni effettuate in vita dal de cuius al convivente (donazione va considerata la concessione di un diritto di abitazione), 1/2 della massa ereditaria tocca alla figlia, mentre il valore delle donazioni effettuate in vita non può superare il 50% del valore complessivo della massa ereditaria.
Per sapere se è stata violata la quota di legittima spettante alla figlia erede, si calcola, innanzitutto il valore complessivo della massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della sua morte (nella specie l’immobile). Si può così ottenere la quota disponibile al de cuius (la parte di eredità che potrebbe essere stata devoluta a chiunque con donazioni in vita senza violare i diritti della legittimaria), pari ad 1/2 del valore dell’eredità relitta al netto degli eventuali debiti della defunta.
La quota disponibile andrebbe confrontata con il valore del diritto di abitazione concesso al convivente donatario della defunta. In che modo? Esistono tabelle notarili per la determinazione del valore dei diritti di usufrutto, abitazione ed uso: in base ad esse, ad esempio, al diritto di abitazione di cui è beneficiario un soggetto di età compresa fra 46 e 50 anni (purtroppo lei non riporta l’età del convivente di sua madre), può essere attribuito il 75% del valore dell’immobile abitato.
A questo punto è facile capire se è stato violata la quota spettante alla figlia e se, pertanto, può essere avviata un’azione giudiziale di riduzione della quota (la valorizzazione del diritto di abitazione concesso al donatario): il 75% del valore dell’appartamento concesso in abitazione, infatti, non deve, e non può superare la metà del valore complessivo dell’intera eredità lasciata dalla defunta. Cosa pressoché impossibile, nella maggior parte dei casi, il che spiega come, nel tentativo di deflazionare il ricorso al tribunale dei legittimari, in situazioni simili a quella riportata dalla lettrice, il legislatore sia intervenuto limitando, in ogni caso, a cinque anni il diritto di abitazione concesso al convivente della proprietaria.
Di seguito il testo del citato articolo 1 comma 42: in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
9 Settembre 2020 - Piero Ciottoli
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