Carlo Marx non aveva tutti i torti

Non lo dico io. Lo dice Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury, vale a dire il “papa” degli anglicani. Davanti al terremoto finanziario delle ultime settimane, in particolare davanti alla scoperta che speculazioni da miliardi di euro, gestite da banchieri che si arricchiscono in Borsa rischiando e scommettendo come se fossero in un casinò, l’arcivescovo afferma che il “capitalismo senza redini” è una minaccia per la società, proprio come sosteneva il padre del comunismo.

Un altro arcivescovo anglicano, quello di York, è stato ancora più radicale, dichiarando che i banchieri che giocano con i soldi degli altri provocando disastri a se stessi e al cittadino medio sono come “rapinatori di banca”, insomma dei ladri. Esagerazioni di sacerdoti troppo attenti all'etica? Forse. Ma il primo ministro britannico, Gordon Brown, d’accordo col suo ministro del Tesoro e le autorità che regolamentano la Borsa, sembra pensarla in modo simile: l’avidità degli speculatori, ha detto Brown, ha contribuito al crollo dei mercati, è ora di porvi dei limiti, per esempio limitando i bonus che a fine anno ricevono i banchieri, bonus che talvolta diventano uno stimolo a correre rischi eccessivi in cerca di guadagni favolosi. E anche nella patria del liberismo puro, l’America, il presidente Bush parla di “regulation”, ossia di controlli più severi, anzichè di “deregulation”.

A livello di opinione pubblica, sulle due sponde dell'Atlantico, c’è una rabbia crescente contro un sistema finanziario che si è enormemente arricchito, poi è sprofondato in una voragine, e ora tocca al contribuente salvarlo (pagando più tasse).

Il capitalismo è da buttare? Sicuramente no: parafrasando quel che Churchill diceva della democrazia, si potrebbe rispondere che è il peggiore sistema economico, a eccezione di tutti gli altri sperimentati fino ad ora. Ma sono almeno vent’anni che qualcosa è cambiato nei mercati finanziari. Quella esplosa nei giorni scorsi per effetto dei mutui “sub-prime” e della stretta creditizia è la terza “bolla” che si sgonfia negli ultimi due decenni: la prima fu quella dei junk-bonds, i titoli-spazzatura, negli anni Ottanta; e la seconda quella della new economy, alimentata da Internet, negli anni Novanta. Ogni volta, la stessa storia: giovani speculatori che in pochi anni guadagnano somme favolose, poi le sperperano danneggiando, prima ancora che se stessi, le loro aziende e la società. Una vignetta su un giornale inglese dei giorni scorsi mostrava i banchieri della City di un tempo, in gessato grigio, bombetta, ombrello: la divisa del gentleman. Sarebbe ingenuo pensare che fossero davvero tutti gentiluomini, nel loro lavoro, ma forse qualche volta è vero che l’abito “fa” il monaco: di gentiluomini di quel tipo, oggi, ce ne sono molto meno, nella City e nelle altre capitali della finanza.

In compenso ci sono molti più speculatori miliardari. Un tempo, non era così. In ogni nazione, c’era una classe di qualche centinaio di uomini veramente, assurdamente ricchi. Ma sono venti o venticinque anni che i ricchi sono diventati tantissimi: un libro li ha descritti con un termine che sembra un ossimoro, “il miliardario di massa”. Ferrari e Aston Martin si sono moltiplicate, così come gli yacht nei porti; e anche il boom dell'alta moda, degli abiti firmati, delle scarpe, delle borsette da decine di migliaia di euro a capo, deriva in parte da questo fenomeno. Che ha indubbiamente aiutato una certa economia, quella del lusso, anzi del super-lusso. Ma che era drogata, gonfiata, come la bolla che la sosteneva e che, a un certo punto, va in mille pezzi.

di Enrico Franceschini

26 Settembre 2008 · Antonio Scognamiglio




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