Una domanda pisco-esistenziale: ma siamo tutti delle teste di rata?

Essendomi ritrovato per le mani un'eccedenza di liquidità per aver venduto un immobile mi apprestavo a versare i miei 250mila euro scarsi sul conto corrente. Immediatamente mi chiama il direttore suggerendomi varie destinazioni possibili per quei fondi, proponendomi il solito ciarpame di fondi della banca stessa, era lo stesso che anni prima mi chiese adeguate garanzie per l'erogazione di un prestito. Questa volta avevo io il coltello dalla parte del manico e mi sono reso conto che a questo punto ero io nelle condizioni di chiedere garanzie reali alla banca a garanzia di tutto quel denaro che veniva loro affidato.

Ho provato a chiedere le stesse cose che solitamente chiedono loro: una ipoteca a mio favore sui locali di quella filiale, titoli di Stato a pegno con un controvalore eccedente di almeno il 10 per cento rispetto alla cifra depositata oppure altre garanzie reali come oro o materie prime. A rigore di logica ne avrei avuto pienamente diritto: la banca non si fida di noi e non vedo perché io dovrei fidarmi di un istituto che in un anno ha perso i quattro quinti del proprio valore in Borsa, ma il direttore mi ha riso in faccia. A questo punto chiunque contrattando un prestito o un finanziamento con una qualsiasi banca è autorizzato a fare altrettanto.

«Non andare in banca col cappello in mano: te lo fregherebbero subito». Scrivono così il giornalista Marco Fratini e l’esperto finanziario Lorenzo Marconi, autori del libro «Vaffanbanka», in cui si pongono domande interessanti come: «I derivati ci porteranno alla deriva?» o «Benchmark è uno sciatore svedese?».

Le risposte, per la verità, sono ancora più interessanti delle domande. E alla fine del volumetto c’è anche un bel test per capire se siamo davvero delle «teste di rata». Ebbene, quel test lei può anche evitare di farlo. Il risultato lo conosciamo già: lei non è una «testa di rata». Ma soprattutto lei non è uno che va allo sportello «col cappello in mano». Anzi. Mi piace il suo spirito, sa?

Per anni siamo entrati in banca come si va dal dentista: rassegnati a sentire dolore e a lasciarci tanti soldi. Abbiamo vissuto in perenne soggezione di questi consulenti che ci parlavano di hedge fund e index linked, absolut return e zero coupon, usando formule esoteriche e un po’ magiche, rituali quasi religiosi che, in effetti, ci costringevano ad inginocchiarci (e spesso a recitare l’atto di dolore). Certo: ogni volta ci mettevano davanti un prospetto informativo (incomprensibile): più che a salvare il nostro portafoglio, in effetti è sempre stato utilizzato per salvare le loro coscienze.

E noi lì, un po’ tremebondi, capaci di confondere «Capitan Gain» con «Capitan Wayne», capaci di scambiare il codice Cin per un’abbreviazione del brindisi di Capodanno e di chiedere allo sportello un po’ moneta «cantante» (per andare a Sanremo?).

Ora la sua lettera segna una svolta. Un cambiamento radicale. A me piacerebbe leggerla addirittura come il manifesto dell'orgoglio del cliente bancario: gli istituti di credito sono in deficit di credibilità, la crisi li ha scossi, ha portato alla luce le loro magagne. Tutto ciò ci rende noi, umili clienti, più forti nei loro confronti.

Possiamo alzare la voce e far valere i nostri diritti, perché è ora di finirla con quelli che ci strozzano quando devono prestarci i soldi e ci illudono quando vogliono prenderceli. E che, quando parlano di investimenti, a volte ci propongono un fondo. Ma per lo più si propongono soltanto di farci un fondo così...

da Il Giornale.it

4 Febbraio 2009 · Patrizio Oliva


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