Telefonate continue ed insistenti indirizzate al debitore inadempiente e provenienti da una società di recupero crediti? E’ sufficiente presentare una querela per molestie se si desidera davvero porre fine alla persecuzione

Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a cinquecentosedici euro (articolo 660 del codice penale).

La norma punisce il recare molestia o disturbo alle persone: la condotta può manifestarsi in qualsiasi luogo, pubblico o privato, ed anche per mezzo del telefono, e consiste nell'oggettiva idoneità a molestare terze persone, interferendo nell'altrui vita privata e nell'altrui vita di relazione.

Per petulanza si intende ogni contegno di arrogante invadenza e di intromissione continua ed inopportuna nell'altrui sfera di libertà.

Il procedimento nell'ambito del quale è stata emessa la sentenza 29292/2019 della Corte di cassazione, sezione penale, è scaturito proprio dalla querela presentata da un debitore il quale ha riferito che, a seguito dell'interruzione del contratto di fornitura di energia elettrica aveva ricevuto, per un periodo di quasi due mesi, un numero esorbitante — nell'ordine quotidiano di 8-10 — di chiamate telefoniche, distribuite lungo l'intero arco della giornata, provenienti da diversi incaricati e finalizzate ad ottenere il saldo delle fatture rimaste inevase all'atto della cessazione del rapporto di fornitura.

Il Tribunale, ritenuta l'attitudine dei contatti, per la loro frequenza e collocazione oraria, ad integrare la petulanza richiesta dall'articolo 660 del codice penale, aveva individuato nell'amministratore della società incaricata del recupero crediti per conto della società fornitrice di energia elettrica, il responsabile, quantomeno a titolo di colpa, dell'illecito, commesso in ossequio a precisa strategia aziendale e non in forza di autonome iniziative dei singoli addetti al cali center.

L'amministratore della società di recupero crediti è stato condannato alla pena di 300 euro di ammenda, oltre che al pagamento delle spese processuali, perché responsabile del reato di molestia o disturbo alle persone. Contestualmente, egli è stato anche condannato al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, arrecati alla costituita parte civile ed alla rifusione delle spese legali in favore della medesima parte civile.

La vicenda si è poi trasferita in Corte di cassazione, dove l'amministratore della società di recupero crediti ha dedotto di essere stato ingiustamente accusato quale autore delle telefonate in realtà effettuate dagli addetti incaricati della società da lui amministrata.

I giudici di Piazza Cavour hanno eccepito che, contestandosi all'amministratore della società di recupero crediti di avere, « recato disturbo o molestia al debitore inviando numerose telefonate alla di lui utenza telefonica, è stata descritta una condotta che, tenuto conto del ruolo assunto dall'imputato in seno all'azienda, era senz'altro riferita alla promozione di politiche di impresa suscettibili di ledere il bene protetto dalla norma penale ovvero all'inadempimento dei prescritti doveri di vigilanza.

I giudici hanno poi aggiunto che l'illiceità dell'azione posta in essere con il decisivo concorso dell'amministratore della società è derivata dalla scelta, presumibilmente compiuta dalla governance aziendale, di ricorrere ad insistite e pressanti iniziative finalizzate al recupero del credito, così anteponendo gli obiettivi di profitto al rispetto dell'altrui diritto al riposo ed a non essere disturbati, ciò che integra il biasimevole motivo richiesto dalla norma incriminatrice (articolo 660 del codice penale): peraltro, l'elevata frequenza delle telefonate quotidiane risponde alla nozione di petulanza richiesta dalla disposizione applicata.

L'amministratore della società di recupero crediti, spiegano ancora i giudici, era sicuramente a conoscenza delle violazioni dei codici interni di comportamento, ciò che vale a qualificare il suo contegno in termini quantomeno colposi.

Per non portarla per le lunghe, concludiamo riferendo che il ricorso è stato respinto e l'amministratore della società di recupero crediti è stato alla fine anche condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

16 Agosto 2019 · Giovanni Napoletano




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