SUL 2009 E’ IMPRUDENTE FARSI TROPPE ILLUSIONI

L’economia americana, come dice Feldstein, "è in uno stato terribile e sta peggiorando". Non solo, continuerà a contrarsi per tutto il 2009 e saremo fortunati, fra un anno, se ci saranno segni di ripresa.

I primi giorni dell'anno sui mercati, lungi dall'essere indicativi della tendenza del nuovo anno come vuole la leggenda, sono silly season, stagione sciocca. Si riparte da zero e se in dicembre è andata bene si è portati a pensare a un naturale prolungamento della tendenza positiva, mentre se è andata male si ha gran voglia di voltare pagina.

I soldi ci sono, perché i libri degli operatori sono puliti o, quanto meno, sfoltiti dalle pulizie di fine anno.

Viene in mente il 2001, anno secondo della crisi iniziata nel marzo 2000 e terminata tre anni esatti più tardi. Dopo un dicembre negativo si partì di gran carriera e l’S&P500 salì da 1280 il 2 gennaio a 1380 a fine mese, complice un taglio dei tassi da parte della Fed che, si pensava, avrebbe posto le basi per la ripresa. In realtà il 2001 si chiuse male, a 1148, dopo avere toccato in settembre 970.

Anche quest’anno si è partiti con l’idea che il peggio è alle spalle, che i minimi li abbiamo già visti, che la discesa del Pil globale sta rallentando, che la pozione magica del grande piano di Obama garantirà una seconda metà dell'anno in riaccelerazione e che dopo un anno in cui le borse si sono dimezzate di valore non può essercene un altro con segno negativo.

Al clima di entusiasmo ha contribuito perfino la crisi del gas tra Russia e Ucraina. E’ salito il prezzo del gas europeo, che ha fatto salire quello del gas americano, che ha fatto salire il greggio, che ha fatto salire petroliferi e minerari (alcuni grandi nomi anche del 40 per cento), che hanno contribuito a fare salire i bond russi e l’S&P500. Bene bene, avrebbe detto Bastiat il paradossale, facciamo saltare tutti i pozzi sauditi, così le borse andranno alle stelle e ci garantiamo un anno di prosperità.

L’economia, però, come dice Feldstein, "è in uno stato terribile e sta peggiorando". Non solo, continuerà a contrarsi per tutto il 2009 e saremo fortunati, fra un anno, se ci saranno segni di ripresa. Feldstein, repubblicano fiscalmente conservatore, arriva a proporre, oltre a tutte le misure annunciate da Obama, anche un aumento massiccio delle spese militari.

Sul 2009, dunque, è imprudente farsi troppe illusioni, anche se il fronte degli ottimisti annovera nomi molto autorevoli come Steve Leuthold, Laszlo Birinyi e Ned Davis tra i quantitativi e Warren Buffett tra i fondamentalisti. Gli ottimisti, quale che sia il loro approccio, sono accomunati dal tema del ritorno alla media.

In effetti, se si escludono errori clamorosi di policy o complicazioni esogene come guerre o shock da offerta, guardando alle serie storiche la recessione in corso sarebbe già a buon punto e i premi per il rischio sui vari mercati sono già così alti da incorporare scenari apocalittici. I bond di bassa qualità, ad esempio, sono arrivati in dicembre a scontare una probabilità di default maggiore di quella che prezzarono nei momenti più bui degli anni Trenta.

Il problema delle serie storiche, come abbiamo ben visto nei due anni scorsi con tutte le modellizzazioni di rischio e di prezzo basate sul passato, è che ogni tanto traggono in inganno. Ogni tanto la storia fa un salto, ogni tanto si incontra un cigno nero, ogni tanto è vera la più bersagliata e irrisa delle tesi pronunciabili da un economista o da uno strategist, quella per cui "questa volta è diverso".

Nel 1999-2000 "questa volta era diverso" per via dell'accelerazione che Internet avrebbe impresso per sempre alla storia umana. All’inizio del 2007 "questa volta era diverso" per il motivo opposto, ovvero la Grande Moderazione delle politiche economiche che, dando stabilità strutturale al sistema, ne avrebbe garantito lo sviluppo per molto tempo a venire. Si è visto come è andata a finire.

C’è del resto tutta una scuola di pensiero che teorizza che quando si sente ripetere troppo spesso che "questa volta è diverso" è vicino il momento del rientro nella norma. Bisogna dunque essere molto cauti prima di parlare di rottura storica e non solo quando le cose vanno apparentemente benissimo (come nel 1999 e all'inizio del 2007), ma anche quando vanno apparentemente malissimo, come ora.

Ci limiteremo quindi a dire, usando molta cautela, che la crisi in corso è già adesso più grave della media delle recessioni del dopoguerra. Non solo, è anche più grave della media delle recessioni degli ultimi due secoli, così come ricostruite da Christina Romer nel suo studio del 1999 "Changes in Business Cycles: Evidence and Explanation".

Questa volta, quindi, è "già" diverso. L’allineamento infausto di recessione ordinaria da scorte più crisi bancaria-immobiliare più crisi della finanza personale più crisi petrolifera (fino a luglio) non capita spesso. Non possedendo doni profetici non sappiamo dire se questa volta sarà diverso come nel caso della Grande Depressione. Quasi sicuramente non sarà così, se anche i pessimisti autorevoli alla Rogoff dicono che tra un paio d’anni ne saremo fuori. Raccomandiamo però di prendere con le pinze tutti i ragionamenti confortanti costruiti su serie storiche troppo brevi.

Detto questo, proviamo a dire qualcosa di positivo. E’ evidente che la pressione delle vendite forzate, quelle di chi era a leva elevata, è molto rallentata, così come stanno rallentando i riscatti dai fondi di tutti i tipi. La riduzione della leva e i riscatti non si ripeteranno più, anche nella peggiore delle ipotesi, nelle modalità distruttive di questi ultimi mesi.

Anche la volatilità, quindi, pur rimanendo elevata sarà meno devastante. Un secondo dato positivo è che le banche centrali, in particolare la Fed, proseguono a testa bassa nella loro politica di tassi di policy tendenti a zero e di riduzione degli spread temporali (quelli tra tassi a breve e tassi a lungo) e degli spread di credito (in particolare per i titoli legati ai mutui e per i corporate di qualità medio-alta). Si registrano già successi significativi sulla carta commerciale, sull’interbancario, sul Crossover.

Alcuni successi sono reversibili, ma in alcuni casi si può parlare di normalizzazione già a buon punto. Il riavvio del mercato del credito può non fare notizia, ma è una condizione necessaria, anche se purtroppo non sufficiente, per l’uscita dalla crisi.

Un terzo dato positivo di cui si parla invece molto è quello delle misure fiscali. L’amministrazione Obama sta muovendosi su una linea generale di fermezza nell’affrontare la crisi ma anche di attenzione a non apparire iperaggressiva, per non spaventare troppo i mercati valutari e i compratori di debito pubblico. Dollaro e bond governativi lunghi sono già soggetti, e lo saranno ancora di più nei prossimi mesi, a ondate di paura non da crisi, ma da eccesso di risposta alla crisi. Sono paure largamente immotivate e però profondamente radicate in ampi segmenti dei mercati.

Nella nostra esperienza personale ci capita di sentire tutti i giorni quasi più preoccupazione per i rischi di inflazione, di crollo del dollaro e di esplosione futura dei tassi che non sull’andamento peraltro disastroso dell'economia reale. Queste ondate di preoccupazione poco fondata offriranno ottime occasioni di trading. Alla stabilità dei tassi di policy a zero o vicino a zero per molto tempo a venire corrisponderà infatti un grande nervosismo sui governativi lunghi. Che andranno acquistati ogni volta che il mercato si metterà a venderli.

L’esperienza giapponese mostra con chiarezza che l’ammontare crescente del debito pubblico e, conseguentemente, delle emissioni non hanno influenza negativa sulla domanda finale di titoli in situazioni di deflazione endemica e quando non ci sono alternative d’investimento (in particolare immobiliari e azionarie) con particolari prospettive di apprezzamento. Se ci fosse tutta questa relazione tra debito pubblico e tassi, i titoli lunghi giapponesi (ma anche italiani) dovrebbero rendere molto di più.

Quanto all'inflazione, è paradossale che mentre il mercato si preoccupa per il suo futuro ritorno la Fed (come risulta dai verbali dell'ultimo Fomc) considera l’ipotesi di indicarne un livello obiettivo (che sarebbe implicitamente tra l’uno e il due per cento) non perché teme che venga superato, ma perché teme al contrario che non venga raggiunto.

E’ anche paradossale il fatto che la Fed, nelle circostanze attuali, potrebbe perfino essere ben lieta che queste paure continuino a circolare, prevenendo almeno in parte il temuto radicarsi di una psicologia deflazionistica.

In generale ci sembra che l’elemento decisivo per valutare le probabilità di inflazione sia l’output gap, ovvero la differenza tra quello che l’economia globale è in grado di produrre e quello che effettivamente produce. Il Pil potenziale cresce anche in questi mesi di crisi profonda, perché cresce la popolazione del mondo e cresce la produttività. Il Pil effettivo, invece, scende in assoluto e continuerà a contrarsi per quasi tutto quest’anno.

L’output gap, quindi, è già elevato e continuerà a crescere per molti mesi. Anche nell’ipotesi che denaro fresco di stampa venga gettato giorno dopo giorno dagli elicotteri, prima di vedere inflazione bisognerà aspettare che venga speso fino a fare risalire la domanda aggregata fino al livello dell'offerta potenziale. A quel punto, presumibilmente, qualsiasi banchiere centrale che non abbia studiato in Zimbabwe ordinerà agli elicotteri di tornare a terra e sarà colmato di onorificenze.

Come strategie d’investimento continuiamo a pensare che per quest’anno sia meglio concentrarsi sui rischi moderati (governativi lunghi, corporate di qualità medio-alta, bond bancari più o meno garantiti e ben diversificati). Questo non toglie che anche per l’azionario ci possano essere fasi di recupero più significative di quelle poche offerte dal 2008. Gennaio e febbraio potrebbero dare qualche (limitata) soddisfazione. In caso di entusiasmi esagerati sarà bene vendere.

di  Alessandro Fugnoli

12 Gennaio 2009 · Antonio Scognamiglio




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