Mercati, lo tsunami del debito

Il mondo è sommerso dai debiti. Negli Stati Uniti tra settore pubblico, imprese e famiglie si arriva a 33 mila miliardi di dollari, in Eurolandia a 15 mila, nel solo Regno Unito sono quasi 3 mila e 200 miliardi di sterline. Ricalcolando tutto in euro siamo a 60 mila miliardi, ai quali vanno aggiunti i debiti del Giappone, dei paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo per un totale tra 90 e 100 mila miliardi. Nel 2009 una parte di questa montagna di debiti verrà in scadenza e dovrà essere rifinanziata, e in più ci saranno i nuovi debiti che gli stati sono costretti a fare per raccogliere le somme necessarie ai salvataggi delle banche e ai pacchetti di stimolo all'economia.

Le cifre sono imponenti, si prevede che il Tesoro Americano emetterà nuovi Treasury Bills per 2 mila miliardi di dollari, gli altri paesi industrializzati per altri mille e altrettanti i paesi emergenti. A questi sono da aggiungere la quota di debito pubblico globale, le obbligazioni bancarie e quelle emesse dalle imprese che scadono durante l’anno e dovranno essere rifinanziate.

Cifre complessive è difficile farne, ma solo nell’area dell'Euro vengono in scadenza 455 miliardi di titoli di stato a medio e lungo termine più almeno altrettanti a breve, nonché 408 miliardi di obbligazioni emesse da banche. Secondo Standard & Poor’s globalmente scadono circa 500 miliardi di dollari di obbligazioni emesse dalle imprese e mille miliardi di prestiti bancari alle aziende. Ing Wholsale Banking calcola che i paesi emergenti, oltre alle nuove risorse di cui avranno bisogno, dovranno rifinanziare quasi 2 mila miliardi di dollari di prestiti bancari e di titoli in valuta che scadono nel 2009.

Il problema è chi comprerà questa massa immensa di titoli che arriveranno sul mercato. Gli analisti fanno una prima valutazione: poiché meno soldi andranno negli hedge fund, nei private equity, nelle borse e anche nelle obbligazioni emesse dalle imprese, ci sarà probabilmente una massa di denaro in cerca di impieghi sicuri che finirà per essere investita nell'acquisto di titoli di stato.

E’ certamente vero ma non basta a rassicurare gli emittenti per almeno tre ragioni. La prima è che nel 2008 la ricchezza finanziaria è stata falcidiata dai crolli delle borse, dei valori dei derivati, dei titoli strutturati, degli hedge funds e di molti altri strumenti finanziari in circolazione. I proprietari di tutto ciò se un anno fa avevano un portafoglio che valeva cento, ora si ritrovano con molto meno da investire. Un riduzione di disponibilità che viene un po’ mitigata dalla maggiore propensione al risparmio che si determina ogni volta che la ricchezza finanziaria diminuisce (e infatti negli Stati Uniti il tasso di risparmio ha ricominciato a salire) ma che è comunque molto rilevante.

La seconda ragione di preoccupazione è che gli investimenti non si spargeranno equamente per il pianeta ma andranno verso i lidi più rassicuranti, i mercati più liquidi, e quindi verso il dollaro e i titoli del tesoro americano, verso l’euro e prevalentemente verso i Bund tedeschi, eventualmente verso lo yen. Nonostante questa corsa verso le valute forti i paesi ricchi non devono sentirsi tanto al sicuro, se la Banca d’Inghilterra è pronta ad acquistare titoli del Tesoro britannico, la Federal Reserve i Treasury Bills, e la Bce forse comincia a pensare anch’essa a qualche forma di intervento. La Banca del Giappone dal canto suo i titoli emessi dal governo li compra già da anni.

E’ per i paesi emergenti tuttavia che il problema rischia di diventare drammatico. Si stima che il flusso degli investimenti esteri crolli dai mille miliardi di dollari del 2008 a soli 150 nel 2009, mentre le banche internazionali presenti in quelle aree, ricapitalizzate con i soldi dei contribuenti del paese dove hanno il loro quartier generale, tenderanno a concentrare lì l’erogazione del credito. In queste condizioni l’intervento pubblico per sostenere le banche locali e l’economia sarà più che mai necessario ma è diffusa la convinzione che senza un sostanzioso aiuto internazionale i paesi emergenti da soli non ce la possano fare.

Le differenze tra i vari emittenti le faranno i tassi, ma potrebbe non bastare. Per tutti resta l’opzione di accorciare le scadenze visto che la domanda per i titoli a breve è fortissima. Accorciare le scadenze oggi vuol dire però raddoppiare la quantità di debito che si dovrà rifinanziare domani e vuol dire aumentare la vulnerabilità dei propri conti esponendosi ad oscillazioni imprevedibili del costo del denaro. Sarà una partita difficile, in cui i governi saranno ciascuno competitore dell'altro nell’arena della finanza globale alla conquista della quota di risparmio di cui ciascuno ha bisogno, e alla fine è probabile che il club dei paesi che hanno un debito pubblico superiore al 100 per cento del pil, che oggi conta tra i suoi soci eccellenti l’Italia e il Giappone, sarà assai più affollato.

Ma il punto centrale di questa crisi è che il debito complessivo deve diminuire, la montagna che abbiamo accumulato è troppo alta e l’economia non è in grado di reggerla. E’ un processo complicato che gli economisti chiamano ‘deleveraging’, ovvero riduzione della leva. La leva è quel meccanismo che consente con uno sforzo limitato di sollevare grandi pesi. In finanza lo sforzo è il capitale e il peso che si riesce a sollevare è il debito. In fisica e in economia funziona a meraviglia, naturalmente finché c’è un equilibrio tra le due forze, perché quando si esagera il meccanismo si spezza. E’ esattamente quello che è successo e ci ha sprofondato nella recessione che stiamo attraversando.

La leva alla quale si è arrivati in questi anni è poderosa. Secondo quanto ha detto il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi il 21 ottobre scorso in un’audizione al Senato, se il rapporto medio tra il totale dell'attivo e il patrimonio di base dei primi cinque gruppi bancari italiani è inferiore a trenta, per le principali banche europee sale a quaranta, il che vuol dire che le banche europee (quelle americane facevano anche di peggio) per ogni euro di capitale posseduto erogavano credito per 39 euro. Appena una parte di quei crediti ha cominciato a scricchiolare la leva è diventata insostenibile e il meccanismo si è rotto.

Per rimetterlo in funzione bisogna ritrovare un equilibrio e le strade sono due: la prima è ripristinare il capitale che le perdite sui titoli tossici (e non solo) hanno distrutto, la seconda è ridurre il debito. La più semplice e meno dolorosa è la prima, e poiché di privati disposti a investire nelle banche non se ne trovano, a ricapitalizzarle sono gli stati, i quali a loro volta trovano i soldi necessari facendo nuovi debiti.

E’ un intervento necessario ma non sufficiente, si evita il tracollo ma il ‘deleveraging’ continuerà, la sfida è gestirlo in modo che non uccida l’economia. Quando non si eroga nuovo credito le famiglie non cambiano la macchina o il televisore, le imprese non investono in nuovi impianti e l’economia si ferma. La crisi aumenta i timori per il futuro e spinge a risparmiare di più e quindi a consumare di meno accentuando la recessione. Se poi il credito non basta fermarlo ma bisogna addirittura ridurlo il problema diventa ancora più drammatico, vuol dire che gli imprenditori devono trovare nuovo capitale, cosa difficile in questo periodo, oppure cedere parti dell'azienda, operazione anch’essa non facile. Devono ridimensionare, ridurre il perimetro di attività e, se non ce la fanno, chiudere. Il rischio vero, finale, è che si riduca la base produttiva e quindi le potenzialità di tornare a crescere in futuro.

Per evitare o almeno contenere questo rischio in questo momento non c’è che l’intervento pubblico, gli stati sono gli unici che riescono a raccogliere risparmio e che possono riimmetterlo nell’economia. Il debito globale non diminuisce ma c’è una possente migrazione degli investimenti dal privato verso il pubblico. Non si risolve il problema ma si compra tempo per dare modo al sistema di rimettersi in moto. Comunque vada il prezzo lo pagheranno i nostri figli.

di MARCO PANARA

9 Febbraio 2009 · Antonio Scognamiglio


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