L’Africa, la Banca Mondiale e la finta crescita

L'Africa, la Banca Mondiale e la finta crescita

L’Africa cresce, dicono: del 5,4 per cento, pare, una percentuale che si riferisce al 2005 ma che dovrebbe venire confermata anche per l’anno che si va a chiudere. Addirittura, un tasso medio superiore a quello registrato da tante nazioni occidentali. Giusto per rimanere in casa, basta dire che l’Italia sarebbe ben contenta di chiudere il 2007 con un più 2,2 per cento. Un successo, insomma, quello africano. Il segnale di un’inversione di tendenza da sempre attesa.

Se poi a dire che “molte economie africane sembravano aver voltato pagina e aver intrapreso il cammino di una crescita economica più veloce e costante” è niente meno che la Banca mondiale (Bm), come si fa a non esultare, a non cadere nell’illusione che il Continente nero si stia lentamente affrancando da quella povertà che lo affligge? Ma, a guardar bene, il rapporto che la Bm ha reso noto negli scorsi giorni - Africa Development Indicators 2007 (Adi 2007) - è poco più di uno spot pubblicitario.

Uno spot, tra l’altro, ingannevole, che parla di un’”Africa” che non esiste. Di un’Africa al singolare, pretendendo di considerare come una singola entità il secondo continente più vasto del mondo dopo l’Asia. Con un’estensione più che tripla rispetto all'Europa. Con i suoi 53 Stati, ognuno sensibilmente diverso l’uno dall'altro. Dove c’è l’Egitto, ma c’è anche la Nigeria, la Costa d’Avorio, il Sudan. Dove il Sudafrica, da solo, produce il 45 per cento di tutto il prodotto interno lordo del continente. Dove lo Zimbabwe viaggia al ritmo del meno 4,4 per cento, con un’inflazione all'8mila per cento. “L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo”, ha scritto in Ebano un grande reporter come Ryszard Kapuscinski.

“L’Africa ha imparato a commerciare in modo più efficace. Si affida di più al settore privato, sa evitare le gravi crisi economiche degli anni ‘70 ‘80”, ha dichiarato presentando il rapporto John Page, analista della Banca mondiale. Dal 2003 al 2006, infatti, le esportazioni “nere” avrebbero registrato un più 11 per cento. Ad aumentare, anche gli investimenti stranieri: dal rappresentare il 16,8 per cento del Pil nel 2000, si sarebbe passati al 19,5 per cento di quest’anno. E poi anche più produzione di elettricità (+43,8%) e un maggiore accesso all'acqua potabile (+18%) (e viene da chiedersi come si sia riusciti a calcolare un dato del genere). Questa speranza per un miracolo africano arriverebbe, sempre secondo l’Adi 2007, da un “virtuoso” mix fatto di un maggior controllo su inflazione, deficit, tassi di scambio e debito estero. Senza dimenticare, ovviamente, la maggiore apertura dei mercati ai capitali esteri.

L'Africa dovrebbe proprio dire grazie alle politiche che Banca mondiale e Fondo monetario internazionale portano avanti da decenni?

Insomma, l’Africa dovrebbe proprio dire grazie alle politiche che Banca mondiale e Fondo monetario internazionale portano avanti da decenni. Politiche che, sotto il ricatto della concessione di prestiti, hanno spinto i governi africani a investire soldi nella riduzione dei debiti con l’estero piuttosto che in infrastrutture; a ridurre l’inflazione a spese dell'occupazione; ad avviare privatizzazioni anche in settori fondamentali e d’utilità pubblica; ad aprire alla concorrenza internazionale i propri mercati ancora troppo deboli per non soccombere di fronte ai grandi colossi occidentali.

I risultati, quelli veri, quelli detti sotto voce per non apparire troppo in contraddizione con quel più 5,4 per cento, dicono altro. Dicono che, ancora oggi, la povertà è ben lontana dall'abbandonare il continente nero. Il 41 per cento degli africani, infatti, vive/sopravvive con meno di un dollaro al giorno. Il 60 per cento non può usufruire di un sistema sanitario né di quello scolastico. E tutto questo mentre Aids, tubercolosi, malaria e non solo, continuano a imperversare, anche grazie a un’industria farmaceutica che impegna più risorse nel tentativo di difendere i propri brevetti che in ricerca e sviluppo. “I nostri tassi di crescita non sono accompagnati da una significativa riduzione della povertà”, ha ammesso il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika.

E poi ci sono quei 18 miliardi di dollari che in quindici anni ventitré Stati africani hanno scelto di bruciare per comprare armi. Benzina sul fuoco di conflitti etnici e religiosi come quello in Darfur. Dimostrazione del fatto che non basta quantificare il giro d’affari per valutare lo stato di salute dell'Africa. Perché se una parte del Pil dipende dalla produzione e dal commercio delle armi, usate poi per uccidere su quello stesso suolo, a che serve? A che serve dare prestiti su prestiti se poi non si controlla che tutto non finisca nelle mani di politici corrotti che tutto hanno a cuore eccetto il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini che hanno promesso di rappresentare?

Non sorprende che le punte d’eccellenza, i paesi che più di altri contribuirebbero a questa presunta ricchezza africana, sarebbero proprio quelli in grado di attirare capitali esteri con le proprio risorse petrolifere: Mauritania (+19,8%), Angola (+17,6%), Ciad (9%), Mozambico (+7,9%). Bastano questi nomi per capire quanto sia effimero e falso sventolare alti tassi di crescita spacciandoli per progresso.

di Agnese Licata

5 Dicembre 2007 · Antonio Scognamiglio




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