E’ l’intento vessatorio del datore di lavoro a caratterizzare il mobbing

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo deve ricorrere una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi.

Deve, inoltre, essere individuato l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente nonché il nesso tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità.

Infine va dimostrato l’elemento soggettivo, ovvero l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi: infatti, l’elemento qualificante del mobbing va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.

In altre parole, con l'ordinanza 32381/19, la Corte di cassazione chiarisce in modo inequivoco che il mobbing non è necessariamente rappresentato da una serie di comportamenti illeciti, vietati dalla legge, ma buon ben essere costituito da atti leciti, ripetuti con intendo vessatorio. E', invece, l’intento psicologico di arrecare danno (ingiusto) a rendere rilevanti ai fini del mobbing atti di per sé stessi leciti. In altri termini, azioni lecite, organizzate in sequenza, con intento vessatorio, degradano ad azioni illecite, idonee a cagionare un danno che altrimenti non sarebbero in grado di causare. Insomma, è l’intento vessatorio a caratterizzare maggiormente la fattispecie del mobbing.

La responsabilità per mobbing è collegata strettamente all'articolo 2087 del codice civile, norma di carattere generale che tutela le condizioni di lavoro, imponendo al datore l’obbligo di garantire la salute e l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti. Pur se discussa, la responsabilità ex art. 2087 del codice civile ha natura oggettiva, in quanto di tipo contrattuale connessa però alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.

Di conseguenza spetta al lavoratore che lamenti di aver subito un danno l’onere di provare l’esistenza del danno stesso e la sua riconducibilità al comportamento lesivo del datore di lavoro o di un suo preposto.: solo ove il lavoratore abbia dato prova di ciò, al datore spetta l’onere contrapposto di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il danno e che la malattia del dipendente non sia in alcun modo riconducibile all'inosservanza di tali obblighi.

13 Dicembre 2019 · Tullio Solinas


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