Siamo ormai indebitati fino al collo. Dobbiamo coinvolgere i nostri figli al problema o è meglio lasciarli fuori?

Non sto qui a raccontare le vicissitudini che ci hanno portato in un vicolo senza uscita. Siamo ormai indebitati senza alcuna speranza di poter far fronte agli impegni presi. La questione che sottopongo alla vostra attenzione è tuttavia un'altra. Dobbiamo far conoscere ai nostri figli la situazione in cui versiamo, o è meglio lasciarli fuori e tenerli all'oscuro di tutto.

Vi ringrazio per quanto vorrete consigliarci.

Un genitore disperato
Nella nostra ormai lunga esperienza di lavoro a contatto di famiglie con problemi di sovraindebitamento ci siamo spesso imbattuti in nuclei familiari con caratteristiche e modalità di approccio ai problemi assai differenti.

Soprattutto per quanto riguarda la gestione dei problemi di carattere economico.

Non sono poche le famiglie che riescono a coinvolgere, in maniera positiva e non drammatizzante, ma con serietà e responsabilità, nella gestione dei debiti familiari anche i figli, almeno quelli che, ormai non più bambini, possono (o con le proprie fonti di reddito, o anche semplicemente con una maggiore consapevolezza nella spesa) o contribuire a stringere la cinghia o addirittura a raddrizzare la situazione.

Purtroppo, però, sono anche molte quelle che, per sensi di colpa genitoriali o perché abituate a tenere fuori della sfera - diciamo così - “delle cose importanti” i figli, evitano di stabilire con i giovanissimi componenti del nucleo un qualsiasi minimo coinvolgimento nella difficile soluzione del problema. Due estremi opposti di modi di rapportarsi a figli, due atteggiamenti che, peraltro, si rivelano anche in tante altre situazioni. Non c’è molta speranza di essere significativi nell’educazione all'uso responsabile del denaro e quindi alla prevenzione del fenomeno del sovraindebitamento se non si parte da una presa di coscienza, ovviamente gradualmente rispettosa dell'età, da parte dei più piccoli di far parte di un nucleo, di una famiglia, di un insieme di persone che ripartiscono risorse, patrimoni e spese e quindi condividono - seppure in diversa misura e con diversi gradi di responsabilità - un destino comune.

Di un ripensamento dei percorsi di deresponsabilizzazione bisogna cominciare a parlare, da quell’accentuato ma erroneo desiderio genitoriale di tenere finché possibile fuori dalle “brutture” del mondo i giovanissimi. Perché proprio il significato e i percorsi soggettivi di sovraindebitamento ci indicano che non sono tanto e solo questioni economiche in ballo a determinare la situazione di crisi di un single o di una famiqlia.

Spieghiamoci: quando parliamo di sovraindebitamento indichiamo non un astratto quantitativo numerico di eccessivi debiti, ma quella situazione che - facendo concreto riferimento alle normali fonti di reddito o al patrimonio dell'individuo - determinano una difficoltà a farvi rientro. Per cui per alcuni può essere sovraindebitamento 1000 euro per altri 10.000, dipende se si è in grado o non di farvi fronte normalmente, senza dover richiedere aiuto a terzi.

Partendo da questa premessa l’esperienza ci insegna che spesso i soggetti richiedenti arrivano ad una situazione siffatta in maniera lenta e progressiva. Quasi mai, se non in presenza di situazioni drammatiche e perciò impreviste (che ci sono, ma non sono preponderanti), c’è un giorno preciso nel quale viene superato il livello di sopportazione ai nonni o ai fratelli dei capifamiglia), la capacità di dialogo, di farsi corresponsabili, di condividere o dissentire su alcune scelte di acquisto.

Per riuscire però a rendere fruttuoso questo atteggiamento di fondo - che si costruisce nel tempo e indubbiamente sulla base di una stima reciproca consolidata - occorre adoperarsi anche per realizzare uno dei comportamenti che più spesso vediamo carenti se non proprio assenti nei soggetti che vengono a bussare alla porta del nostro blog: la capacità di fare anche una semplice contabilità come le vecchie agende della nonna ci ricordano, scrivere, catalogare. Ci rendiamo conto che è un impegno non semplice, frutto di pazienza di tempo a disposizione.

Ma crediamo anche che sia una questione di volontà, di atteggiamento mentale. Per giunta assente proprio in dosi massicce nelle persone che più ne avrebbero bisogno. Quelle che arrivano a stento a fine mese in pareggio e sono costrette a rivedere l’euro in più o in meno. Ma se non si parte con questo percorso di autoeducazione fin da piccoli difficilmente si diventa capaci di apprenderlo da grandi. Siamo peraltro consapevoli che non s’impara a essere diligenti da un giorno all'altro, ma già la tensione verso questo metodo di disciplina economica è importante e foriera di risultati positivi.

Sapendo, però, che tutto intorno spinge a fare tabula rasa di quel che è stato, e che quindi il lavoro di un educatore va senz’altro controcorrente. Allo stesso modo distante dalla mentalità dominante appare un altro strumento essenziale per una sana educazione all'uso responsabile del denaro: insegnare a “non cogliere l’attimo”.

Diversamente da ciò che dice una delle pubblicità più ricordate degli ultimi tempi, in economia, nelle piccole come nelle grandi transazioni, nessuno ti regala niente. L’affare, che spesso molti ingenui (giovani e meno giovani), sono convinti di aver fatto, invece nasconde solo una “bufala” pagata a caro prezzo. Ma indipendentemente dal singolo acquisto, più o meno ragionato, è proprio la filosofi a del cogliere al volo l’occasione che va combattuta.

La costruzione di una solida esperienza umana va fatta con progetti precisi, ragionamenti più ampi, scelte sperimentate e magari corrette strada facendo, conquiste e insuccessi, allenamento, fatica, obiettivi di breve, medio e di lungo periodo. Il rischio, in realtà, è sempre un calcolo, magari avventuroso che richiede coraggio, ma non incoscienza o scelleratezza.

Questo cogliere l’attimo di cui ci parlano fa il paio con un incremento esponenziale delle occasioni di gioco (dal Bingo al Superenalotto), che stimolano sempre più a provare, a tentare, a mettersi in gioco, ovviamente spendendo a volte le esigue risorse di cui si dispone. Abbiamo visto casi di persone che hanno lasciato il proprio posto fisso per intraprendere una libera attività commerciale.

Nulla di particolarmente scandaloso se non per il fatto che l’avventura (perché tale è risultata) veniva tentata senza alcuna adeguata strumentazione culturale o professionale, cosi “alla cieca”, per sentito dire, perché, appunto, c’era “l’occasione” di un locale in vendita o di una licenza dismessa di qualche amico compiacente. Questo desiderio di sentirci capaci di sfidare la fortuna e di cambiare la nostra vita in una notte, ce lo porteremo dietro ancora per tanto tempo, forse per sempre, ed in modo sempre più prepotente.

Gli educatori, invece, dovrebbero riuscire a premiare più la regolatezza delle piccole e faticate conquiste successive e graduali, che non la genialità estemporanea di una bella risposta tirata fuori dal cilindro del giovane illusionista attrezzato con gli strumenti del tempo presente.

Ancora altri due punti su cui un educatore dovrebbe lavorare per provare a dare ai giovani - quanto meno - alcune chiavi di lettura della propria esistenza quotidiana diverse da quelle che il complesso meccanismo mediatico-industriale spinge a determinare a fini del profitto. Primo.

L’influenza del branco, del gruppo, nelle scelte, dalle più piccole alle più grandi. Per molti soggetti sovraindebitati vale lo stesso criterio che purtroppo spesso si riscontra in molti fatti delittuosi: “il gruppo, la collettività, la classe, la famiglia (o chissà cos’altro) hanno sempre fatto così e io non posso trasgredire”. Il condizionamento, a volte implicito e per nulla costrittivo, viene avvertito dal singolo inderogabile ma solo per intima convinzione, perché vuole così, perché la costruzione della sua identità si è man mano appiattita su alcuni criteri e non si riesce ad uscirne più.

Un solo facile e banale esempio, ma frequente nella pratica: quante cerimonie per eventi felici ma anche tristi, vengono fatte nello sfarzo con conseguente esborso insostenibile i denaro (e dunque con debiti), solo perché “cos’ fan tutti”? Ci sono poche cose da dire in proposito: bisogna educare a pensare con la propria testa. Non c’è nessuna vergogna, non ci può e non ci deve essere, nel non fare qualcosa perché non ce lo si può permettere, anche se altri lo hanno fatto prima di me e continueranno a farlo dopo di me.

Deve essere più confortante sapere che la mia scelta individuale è frutto della mia esperienza di vita reale e che la finzione (perché tale è la scelta forzata) è solo una virtuale apparenza del mio status che presto o tardi verrà svelato nella sua essenzialità. Da aggiungere che in parallelo al “branco” dominante si possono prospettare altri esempi di gruppi, di relazioni forti, di aggregazioni che esaltano comunque l’individuo e lo inseriscono in una trama che non lo schiaccia, ma lo valorizza.

Se l’appartenenza ormai non è più fondante dell'esperienza giovanile come molte inchieste ci insegnano, quell’appartenenza generata e vincolata ad un’idea e ad una ragione più alta, può avere ancora un valore. Prospettare anche solo “l’aggregazione particolare”, quella fondata sul perseguimento di obiettivi concreti e specifi ci, è senz’altro importante: un comitato di quartiere, un’associazione culturale, un’associazione ambientalista e, se permettete, anche un’associazione di consumatori. Il movimento giovanile si sta arricchendo di forme assai diversi di questo tipo di aggregazioni. Non ci si può scandalizzare se nascono anche su interessi di parte e a tutela della somma degli interessi dei singoli.

Bene: purché siano trasparenti gli obiettivi, democratiche le procedure interne, valorizzate le proposte e la partecipazione dei singoli, tolleranti e rispettose delle ragioni degli altri. In comunità siffatte, si può apprendere indirettamente anche ad aver cura di sé e quindi a gestire il proprio patrimonio (di idee, di cultura, di tempo, di relazioni, di esperienze e, perché no, anche di denaro) in maniera avveduta e produttiva.

C’è infine un altro elemento con il quale chiudere: la percezione del senso del limite. Sì, del proprio limite. Cioé di quella condizione della mente e dell'animo che ti consente di valutare in maniera corretta le proprie condizioni reali. Non un generico “si può o non si può fare” una determinata cosa, ma posso io farla o no. La valutazione delle proprie capacità implica onestà di fondo, serietà, onestà intellettuale per riprendere Pirandello - siamo certi che alla prova dei fatti quei “centomila” che ci guardano sempre si riducono ad uno, ecco, in quel momento cominciamo a capire che ogni nostro gesto, ogni nostra scelta è sempre gravida di piccole e grandi conseguenze. E a volte, un pensiero in più prima di effettuarla, potrebbe avere un valore immenso.

Per fare una domanda su come coinvolgere i figli nelle problematiche familiari derivanti dal sovraindebitamento, sul come difendersi dalle società di recupero crediti e dagli agenti esattoriali, sui diritti del debitore, sui debiti in generale nonché su tutti gli argomenti correlati a questo articolo, clicca qui.

11 Luglio 2010 · Loredana Pavolini


Commenti e domande

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2 risposte a “Siamo ormai indebitati fino al collo. Dobbiamo coinvolgere i nostri figli al problema o è meglio lasciarli fuori?”

  1. ilario maiolo ha detto:

    Serve solidarietà!

  2. lucia ha detto:

    salve
    non fai nessun riferimento all’età dei tuoi figli, presumo però che in presenza del dubbio che ti sorge, abbiano un età adeguata per capire ciò che sta succedendo alla vostra famiglia.
    Sinceramente io presenterei il problema, non si può negare un argomento del genere in un contesto familiare.
    E’ bene farli partecipi, con un adeguata preparazione, in modo anche che possano essere solidali con i genitori, quantomeno ad esimersi nel fare richieste delle quali in momenti di difficoltà ci si può rinunciare.
    Spiace leggere e sopratutto provare a calarsi nella parte è ancor più doloroso…
    Tantissimi auguri di una graduale ripresa…..e con un pò di forza e ottimismo ce la farete..!!…..lucia

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