La class action pizza e mandolino: il controverso strumento per la tutela dei consumatori italiani » Prassi dubbi e perplessità

La class action pizza e mandolino: il controverso strumento per la tutela dei consumatori italiani » Prassi dubbi e perplessità

Con la cosiddetta class action, in italiano azione di classe, si fa riferimento a strumenti di tutela collettiva risarcitoria che consentono di attivare un unico processo per ottenere il risarcimento del danno subito da un gruppo di cittadini danneggiati dal medesimo fatto realizzato da una azienda scorretta.

A partire dal 1° gennaio 2010, dopo una lunga serie di rinvii, è entrato in vigore l’ articolo 140-bis del Codice del consumo.

In parole povere, si tratta di una straordinaria occasione per rendere effettiva la tutela dei consumatori in tutte quelle situazioni nelle quali si controverte per importi di valore contenuto e per questo generalmente si preferisce rinunciare alla difesa dei propri diritti.

Dunque, con l'articolo in questione, cercheremo di chiarire al lettore cos'è, come funziona, e qual è la prassi per partecipare ad una class action collettiva.

Una piccola premessa sulla class action

La disciplina dell'azione di classe in Italia ha avuto, sin dal suo primo esordio, vita difficile: la sua originaria versione non è mai stata resa operativa e, nelle more, è stata modificata da un nuovo testo, molto complesso e molto criticato.

Che si sia trattato di un testo complesso è fuori di dubbio; tuttavia, la sensazione che si può trarre - in prima analisi - è che tale complessità risponda non solo (o, comunque, non esclusivamente) all'adozione di una più o meno condivisibile tecnica legislativa, ma anche (e, forse, soprattutto) ad una precisa intenzione: quella di rendere l'azione risarcitoria applicabile ad un numero di casi estremamente ridotto.

La conferma di questa impressione viene proprio dalla lettura delle ultime modifiche apportate al testo dell'art. 140-bis del Codice del consumo (modifiche, queste, pure segnate da non poche difficoltà).

In via preliminare, corre l'obbligo di sottolineare che questa modifica è stata inserita in un testo di legge finalizzato a favorire la liberalizzazione di diversi settori dell'economia italiana, per rendere il mercato nazionale sempre più concorrenziale.

La collocazione sistematica, quindi, dice qualcosa in più e fornisce una chiave di lettura ulteriore: il mercato è reso più concorrenziale anche attraverso l'introduzione di strumenti (come quelli risarcitori collettivi) che consentono di incentivare prassi commerciali e contrattuali sempre più corrette e leali, da parte degli operatori economici, non solo nei confronti dei concorrenti, ma anche nei confronti dei consumatori.

Questi ultimi, in particolare, hanno a disposizione uno strumento che - per la sua natura e per i suoi meccanismi di funzionamento - consente, in via diretta, di poter garantire il risarcimento dei danni subiti e la restituzione delle somme indebitamente percepite dall'impresa, mediante la trattazione unitaria della causa, potendo così reagire in maniera efficace contro la commissione di illeciti plurioffensivi.

In via indiretta, di dissuadere gli operatori economici, che intendono realizzare economie di scala e conquistare spazi di mercato mediante modalità scorrette, dall'adozione di strumenti che si rivelino dannosi nei confronti degli utenti.

Evidentemente questo obiettivo era già chiaro al legislatore sin dalla prima versione dell'art. 140-bis cod. cons.; tuttavia la disciplina adottata non è stata coerente con gli obiettivi dichiarati, neppure in occasione della riforma della norma, che nei suoi 3 anni di vita ha prodotto risultati piuttosto modesti. In Italia, infatti sono state presentate solo 18 2 azioni di classe, di cui solo due hanno superato il vaglio di ammissibilità, per poi essere state entrambe rigettate nel merito.

Di tutto questo pare che il legislatore del 2012 abbia voluto tener conto, apportando alcune modifiche che hanno inciso su uno dei punti più controversi, che sia la dottrina che gli operatori del settore hanno da sempre indicato come il principale ostacolo ad una effettiva diffusione dello strumento: l'identità dei diritti tutelabili attraverso l'azione di classe.

In maniera molto significativa, infatti, l'art. 6 del d. l. 1/2010, convertito in legge 27/2012 è rubricato "Norme per rendere efficace l'azione di classe". È chiaro che la precedente disciplina è apparsa, quindi, inefficace.

Che cos'è una class action

Come accennato, la class action è un'azione giudiziaria che consente ad associazioni e comitati di chiedere al giudice l'accertamento di un diritto alla restituzione di somme o al risarcimento del danno in alcune materie.

La peculiarità di quest'azione consiste nel fatto che, diversamente dalle normali cause in tribunale, questo accertamento non varrà solo fra le parti nel processo, ma anche nei confronti di tutti coloro i quali, pur non prendendo parte al giudizio, vi abbiano aderito.

Ma su che cosa si può' fare una class action?

Ad esempio, è bene notare, che Non si può proporre una class action per far valere qualsiasi diritto ma solo nei casi previsti:

  • contratti stipulati mediante l'uso di formulari, o comunque contratti le cui clausole non sono state oggetto di negoziazione fra i contraenti (ad esempio, tutti i contratti di telefonia, servizi, assicurazioni, bancari);
  • danni da fatti illeciti extracontrattuali (ad esempio, danni da prodotto difettoso);
  • danni derivanti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.

In tutti i casi occorre che sussista l'interesse collettivo dei consumatori o utenti.

Sembra ovvio che il legislatore non abbia inteso interesse collettivo in senso tecnico giuridico (ossia interesse che fa capo ad un ente esponenziale di un gruppo non occasionale), ma vi abbia ricompreso più genericamente ogni interesse leso che faccia capo ad una pluralità di soggetti.

In caso contrario, sarebbe pressoché impossibile proporre class action in Italia.

Inoltre, una class action può essere intrapresa solo da associazioni e comitati che siano adeguatamente rappresentativi di interessi collettivi fatti valere in giudizio.

Non potranno dunque proporre class action i singoli consumatori, o gruppi di consumatori che non siano organizzati in comitati o associazioni.

Ma che cosa vuol dire, in termini tecnici, adeguatamente rappresentative?

In assenza di specificazioni normative, sara' compito del giudice valutare la legittimazione dell'associazione ad agire in giudizio. In passato, con riferimento ad azioni giudiziali sotto questo profilo analoghe, la giurisprudenza ha valutato la sussistenza di una adeguata rappresentatività sulla base dei seguenti criteri: i contenuti e le finalità di tutela dei consumatori presenti nello statuto dell'associazione; l'aver preso parte a organismi pubblici; il riconoscimento della rappresentatività da parte di altri giudici.

Il problema della rappresentatività' opererà in modo differenziato per le associazioni che si occupano di tutela dei consumatori e comitati preesistenti che si sono occupati del problema, da una parte, e dall'altra i comitati creati appositamente per promuovere la class action.

In relazione ai primi sara' molto piu' semplice per il giudice valutarne la rappresentatività', poiché potrà analizzarne l'operato nel passato, la storia, la diffusione e pubblicizzazione del proprio operato fra la gente, la possibilità di raggiungere con i propri mezzi ampie fette di popolazione.

I comitati costituiti ad hoc dovranno invece provare, a nostro avviso, in maniera piu' pregnante la propria rappresentativita'. Se ad esempio porteranno in giudizio un problema locale, la valutazione potra' vertere anche su come hanno coinvolto l'utenza (sui quotidiani locali ad esempio) o sulla portata del problema fra l'utenza.

E dunque, quando un interesse collettivo può essere fatto valere con una class action?

La legge prevede come ammissibili solo le azioni che riguardino interessi suscettibili di adeguata tutela tramite lo strumento della class action.

Cosa vuol dire? Questo criterio atterra':

  • la diffusione dell'interesse collettivo che si intende tutelare (secondo questo criterio non si potrebbero proporre class action che riguardino un numero di consumatori troppo esiguo);
  • la non generalizzabilità del caso portato all'attenzione del giudice. Secondo questo criterio non si potrebbe proporre una class action quando la modalita' con cui la lesione del diritto (o la violazione del contratto) si e' verificata e la responsabilita' che ne consegue non possono che esser valutate caso per caso. Ad esempio, viene iniziata una class action contro l'inefficienza dei call center di un gestore telefonico; non crediamo che questo, che pure e' un inadempimento contrattuale, sia giudicabile con la class action poiche' puo' riguardare inefficienze troppo diverse fra loro per poterne astrarre una categoria di inadempimento. Diverso se l'azienda pratica una tecnica pratica commerciale scorretta "uniforme" (pubblicità ingannevole sul sito dell'azienda).

La legge prevede che debba essere proposta davanti al Tribunale in cui ha sede l'azienda. E' giusto ritenere, però, che come "sede" non si debba intendere esclusivamente la sede legale (altrimenti il legislatore lo avrebbe specificato), ma anche il luogo in cui l'impresa ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio. Rimane aperto il problema per citare quelle aziende straniere che non hanno in Italia sedi con un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.

Sul quesito in cui si possano proporre più class action da parte di soggetti diversi per lo stesso problema. la legge non specifica nulla. Ben potrebbero dunque esistere davanti al tribunale di Milano due distinte class action presentate da due diverse associazioni contro, ad esempio, gli 899 di Telecom. Riteniamo che in questi casi molto probabilmente il giudice, per evitare che sullo stesso problema ci siano pronunce contrastanti, riunirà le due cause in una unica.

Uno dei più' grandi difetti di questa legge, inoltre, che ne limita fortemente il campo di azione, e' che potrà aderire alla class action solo il "consumatore" cosi' come definito nel codice del consumo, cioè la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta. N

e consegue che non potranno partecipare ad una class action soggetti diversi dai consumatori, cioe' chi, come una qualunque azienda piccola, grande o individuale, abbia subito un danno nell'esecuzione di un contratto di adesione.

Per fare un esempio, in caso di class action contro l'inadempimento di un gestore telefonico, potranno partecipare i singoli consumatori che abbiano una utenza residenziale, non anche le utenze classificate come business, seppure il danno che ne ricevono, ma soprattutto l'illecito contrattuale che ne e' a monte, sono identici.

Nel caso in cui sia gia' stata iniziata una class action, il singolo consumatore che intenda far valere in giudizio il proprio diritto al risarcimento per il medesimo problema potrà:

  • promuovere una azione individuale contro l'impresa davanti al giudice competente per la propria residenza;
  • aderire alla class action. In quest'ultimo caso, che la class action sia vittoriosa o sia perdente, egli sara' vincolato a quella decisione del giudice e non potrà, a sentenza emessa, promuovere una propria azione individuale;
  • intervenire nella causa di class action non come "aderente" ma con una propria azione giudiziale. Il consumatore potrà' infatti portare in giudizio le proprie ragioni (con un proprio avvocato) e le proprie prove a sostegno della causa comune.

In ogni caso, il consumatore non potrà aderire a diverse class action aventi lo stesso oggetto proposte da due diverse associazioni.

Infatti aderire alla class action significa comunque agire in giudizio, e per i principi del diritto processuale italiano non si può agire nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso motivo con due cause contemporaneamente. L'aderente potrà comunque sempre ritirarsi dalla class action fino al momento della precisazione delle conclusioni.

Una volta che il giudice ha ritenuto ammissibile la class action, dispone che sia data, a cura del proponente, adeguata informazione sulla stessa.

La legge non spiega altro e dunque, molto probabilmente, sara' lo stesso giudice a decidere come andra' pubblicizzata l'azione. Ma per avere una pubblicita' idonea a raggiunger il maggior numero di possibili aderenti, soprattutto nelle cause di rilievo nazionale, servirebbero all'associazione che ha proposto l'azione ingenti fondi (si pensi alla pubblicazione su quotidiani nazionali, ad esempio). Ciò di sicuro inibirebbe molte associazioni con limitate disponibilità economiche a promuovere class action.

Del resto e' fondamentale che i consumatori siano ben informati sulle class action esistenti ed e' indispensabile che chiunque ne possa avere facilmente conoscenza tramite un unico mezzo di informazione istituzionale di base.

Pertanto proponiamo/auspichiamo che (in fase di applicazione della normativa) sia predisposto un sito Internet gestito dal Ministero di Grazie e Giustizia all'interno del quale ogni proponente, la cui azione sia stata ammessa dal giudice, possa comunicare l'esistenza della class action e l'oggetto della stessa. In questo modo chiunque potra' in qualsiasi momento consultare l'elenco delle class action attive in Italia.

L'idonea pubblicità a garanzia dell'utenza, se interpretata in modo eccessivamente oneroso e non proporzionale alle forze del proponente, rischia di essere paralizzante per il meccanismo stesso.

Per quanto concerne, invece, l'adesione del consumatore alla class action, la legge prevede che il consumatore che intende aderire alla class action lo comunichi per iscritto all'associazione proponente, senza pero' specificare nel dettaglio come ciò debba avvenire.

Sembrerebbe dunque sufficiente anche l'invio di una email o di una raccomandata AR, ma un simile meccanismo cozza con l'esigenza di certezza del diritto propria del nostro ordinamento processuale.

Infatti una mail, seppur con nome e cognome può non essere sufficiente ad identificare con certezza il soggetto che aderisce; similmente per la raccomandata.

Dal ricevimento della comunicazione si producono effetti giuridici che vincoleranno l'aderente, e l'impresa ben potrebbe contestare l'adesione stessa, creando incertezza e caos applicativo.

Seppur appaia un "appesantimento burocratico" riteniamo estremamente utile che l'aderente provveda a far autenticare la propria firma e fotocopia del documento presso il Comune di residenza o domicilio, e solo cosi' spedire l'adesione al proponente per raccomandata AR.

Al termine della causa se il giudice ritiene di accogliere la domanda giudiziale, si pronuncia accertando l'esistenza del diritto al risarcimento del danno o alla restituzione, senza pero' quantificare gli stessi, ma limitandosi ad individuare i criteri da utilizzare nella quantificazione del loro ammontare.

Inoltre, qualora sia possibile allo stato degli atti, il giudice determina una somma minima che deve comunque essere corrisposta ai singoli consumatori che hanno aderito all'azione.

Rimane il dubbio sulla immediata esecutività di questa parte della sentenza: se cioè nel caso in cui l'impresa non corrisponda questa somma il consumatore possa iniziare subito una esecuzione forzata. Cio' perche' la sentenza emessa dal giudice dovrebbe essere di accertamento del diritto, e non gia' anche di condanna dell'azienda, rinviando alle successive fasi (conciliativa o giudiziale (!!!)) la liquidazione degli importi.

A nostro avviso, a prescindere dalle definizioni giuridiche e dottrinali, dovrebbe esser possibile eseguirla anche solo per quegli importi minimi senza dover attendere gli ulteriori sviluppi.

Dopo la sentenza, tutto e' rimesso alla "buona volontà dell'azienda".

In caso di vittoria della class action, infatti, l'impresa chiamata in causa potrà proporre ai singoli consumatori una transazione, mediante il pagamento di una somma a liquidazione del danno. La proposta dovra' essere fatta entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza e, se accettata, diventera' titolo esecutivo (con il quale il singolo potra' attivare una procedura di esecuzione forzata). Nel caso in cui la proposta non venga fatta, o non venga accettata, si apre una ulteriore fase di conciliazione.

Ma chi accetta la proposta: i singoli o il proponente? La legge non e' chiara e, da una lettura sistematica parrebbe che qualora anche un solo consumatore non abbia accettato l'eventuale proposta dell'azienda, il presidente del Tribunale dovra' costituire una "camera di conciliazione", ossia un tavolo di trattativa, sulla liquidazione dei danni patiti da ogni consumatore che non abbia gia' transatto. Questa camera sara' composta da un avvocato scelto dal proponente, uno scelto dall'impresa e presieduta da un avvocato cassazionista.

I consumatori che hanno gia' aderito alla class action (e solo loro), se intendono partecipare alla fase conciliativa, dovranno espressamente farne domanda.

Infine, alla camera di conciliazione, gli scenari possibili sono questi:

  • gli avvocati si accordano sui risarcimenti da pagare ai singoli consumatori;
  • non c'e' accordo, o c'e' solo per alcune posizioni, o ancora l'impresa non partecipa nemmeno, e la camera va deserta.

In quest'ultimo caso, i singoli consumatori pur avendo una pronuncia che accerta il loro diritto al risarcimento, dovranno nuovamente intentare causa, e questa volta da soli, contro l'impresa per ottenere la quantificazione e liquidazione del proprio danno.

I principali dubbi sulla class action all'italiana

Vediamo ora nel dettaglio i dubbi e le perplessità, già in parte sollevati nel precedente paragrafo, su questo procedimento, la class action appunto, un po'troppo maccaronico e pieno di lacune legislative.

Ogni volta che in Italia accade un fatto che coinvolge migliaia di consumatori si sente richiedere a gran voce la class action.

Di come funziona ne abbiamo già parlato.

Cosa succede, però, dopo che viene dato l’annuncio? Praticamente nulla.

A cinque anni dal varo della class action italiana, con un iter a dir poco controverso, questo strumento si è rivelato inefficace e inadeguato, aumentando le difficoltà di accesso per i consumatori.

E a dire che non funziona sono i numeri: ad oggi, l’unica azione collettiva vinta è quella del 2013 promossa dall’Unione Nazionale Consumatori contro il tour operator Wecantour.

Il Tribunale di Napoli ha infatti riconosciuto il risarcimento del danno da vacanza rovinata a un gruppo di turisti in viaggio a Zanzibar che, pur avendo pagato profumatamente per alloggiare in un lussuoso resort, si sono poi ritrovati in un cantiere.

Altri dati è però impossibile reperirli, perché lo stesso ministero della Giustizia chiarisce chenon ci sono statistiche sull'argomento.

Molti del resto i motivi che rendono la class action un’arma spuntata.

Alcune associazioni dei consumatori asseriscono che si tratti di una truffa, uno strumento inattuabile che certamente non serve ai consumatori.

Altri, parlano di una sonora fregatura a vantaggio solo di banche e assicurazioni e che invece di rappresentare un’azione dissuasoria nei confronti delle aziende, lo fa verso i cittadini.

Chiariamo un'altra cosa: la nostra class action non ha niente a che fare con quella a stelle e striscie.

Negli Usa, infatti, lo strumento è ampiamente utilizzato e rappresenta il terrore della grande industria (dal tabacco all'automobilismo passando per le banche) messa in ginocchio per le cifre record sborsate ai consumatori in caso di sconfitta.

Basti pensare ai 23,6 miliardi di dollari pagati dalla RJ Reynolds (che produce Camel, Winston, Pall Mall) accusata di non aver pubblicizzava abbastanza i pericoli per la salute o ai 3 miliardi e mezzo di dollari che la più grande società costruttrice di protesi al seno ha liquidato alle donne che hanno riportato malattie autoimmunitarie dopo l’impianto.

E ancora all’ambientalista eroina (interpretata nel film Erin Brockovich da Julia Roberts) che, portando in tribunale la Pacific Gas & Eletric Co con l’accusa di aver contaminato le falde acquifere della città, ha ottenuto 333 milioni di dollari.

In Italia, tuttavia, anche se la class action funzionasse, gli importi sarebbero decisamente diversi dal momento che, tra le profonde differenze che ci sono tra i due strumenti, spicca quella del ruolo del danno punitivo: da noi, infatti, possono essere risarciti solo i danni effettivi (il rimborso di quanto si è speso), mentre negli Usa concorrono all’importo anche le spese morali e legali.

Quindi il legale ha tutto l’interesse a vincere, perché guadagnerebbe anche sulla quota di risarcimento del danno, incluso quello punitivo.

Alle interpretazioni restrittive sul piano procedurale, si aggiungono anche altre questioni che non fanno funzionare la class action.

Lo scorso anno, al terzo grado di giudizio è stata bocciata la class action presentata dal Codacons contro la Voden Medical Instrument, rea di avere realizzato un kit per diagnosticare l’influenza suina rivelatosi poi una bufala.

La Cassazione, tuttavia, anche se ha confermto l’esistenza di una pratica commerciale illecita da parte dell’azienda che ha diffuso informazioni scorrette sulle proprietà di un farmaco, non ha però riconosciuto valido l’elemento fondante della class action, vale a dire il diritto dell’omogeneità.

Per il giudice i sintomi causati dal vaccino non sono stati infatti simili, perché alcuni consumatori hanno accusato mal di testa e altri la nausea. E, se anche avessero vinto la causa, avrebbero ottenuto come risarcimento solo 14 euro, perché tanto era stato pagato il farmaco.

Altra questione è la modalità di presentazione della stessa class action che rende ulteriormente complessa l’operazione.

La normativa prevede, infatti, che l’azione sia efficace solo nei confronti di coloro che hanno comunicato di volervi espressamente aderire (il cosiddetto opt-in), a differenza dagli Usa dove il meccanismo è automatico, salvo dichiarare di non partecipare (opt-out).

In pratica, quindi, un correntista italiano che decidesse di ricorrere alla class action contro la banca, rea di aver applicato illecite commissioni di scoperto, a proprie spese dovrebbe acquistare pagine di giornali, per mettere a conoscenza anche gli altri consumatori della sua iniziativa. Elemento che spinge solo le associazioni dei consumatori a promuovere le cause al tribunale.

C’è la speranza di veder trasformata la class action da un insieme di meccanismi farraginosi, paletti spesso insuperabili ed enormi difficoltà procedurali a reale strumento di tutela per i consumatori?

Vediamo.

La riforma della class action approvata alla Camera dei deputati: segnali di rinnovamento

Unanimità sulla riforma della class action: l'Aula della Camera ha infatti approvato all'unanimità (388 favorevoli, un astenuto, nessun contrario) la proposta di legge di riforma della class action.

Prima vittoria per i consumatori: la Camera ha votato all'unanimità la legge sulla class action.

La votazione si è conclusa dopo le 19 e tutti i gruppi hanno votato a favore della riforma: su 389 presenti, 388 deputati hanno votato a favore, 1 astenuto e nessun voto contrario.

Il testo, che ora passa al Senato, potenzia lo strumento dell’azione di classe attualmente disciplinato nel Codice del consumo ampliandone lo spettro di applicazione con l’inserimento nel Codice di procedura civile.

Sarà, dunque, una class action più forte quella prevista nel testo di riforma a firma del vicepresidente della commissione giustizia della Camera Alfonso Bonafede (M5s).

Una novità prevede che, nel caso in cui l’attore decida di rinunciare all'azione, gli aderenti possano scegliere tra due opzioni: portare avanti la causa facendola propria oppure iniziarne una nuova usando come base di partenza i fatti di quella precedente arricchiti con eventuali ulteriori elementi.

Inoltre, il testo prevede la possibilità di aderire all'azione di rivalsa anche dopo il pronunciamento del giudice.

Infine, le nuove class action saranno devolute ai Tribunali delle imprese che, essendo poco numerosi sul territorio, contribuiranno a dare vita ad un orientamento giurisprudenziale più compatto.

4 Giugno 2015 · Giuseppe Pennuto


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