L’accettazione del trattamento di fine rapporto non implica il mutuo consenso al licenziamento

La mera inerzia del lavoratore non è di per sé sufficiente a far ritenere una risoluzione del rapporto per mutuo consenso: affinché possa configurarsi una tale risoluzione è invece necessario che sia accertata, sulla base di ulteriori e significative circostanze, una chiara e certa volontà comune di porre fine ad ogni rapporto lavorativo.

Peraltro, grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze da cui ricavare la volontà chiara e certa delle parti di far cessare definitivamente il rapporto di lavoro.

Per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o, comunque, a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra il licenziamento (o la scadenza d’un termine illegittimamente apposto) e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

Ora, non è indicativa d’un intento risolutorio la condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque a cercare un’occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni o abbia accettato il pagamento del TFR, trattandosi di comportamenti non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia al diritto.

Infatti nelle more della preparazione di un ricorso e di conclusione del relativo giudizio, il lavoratore ha pur sempre l'esigenza e l'urgenza di cercare o assicurare una fonte di sostentamento a sé ed alla propria famiglia.

Questo, in sintesi, il principio giuridico enunciato dai giudici della Corte di cassazione nella sentenza 22489/2016.

10 Novembre 2016 · Tullio Solinas


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