Zingari bambini

Per i bambini italiani gli zingari sono la raffigurazione tangibile dell'Uomo nero

Secondo i risultati di una ricerca di qualche anno fa, per i bambini italiani gli zingari sono la raffigurazione tangibile dell'Uomo nero, e quasi nessuno inviterebbe a casa propria un bambino zingaro né lo vorrebbe come compagno di banco. Si dovrebbe morire per la vergogna, essendo riusciti a far temere ai nostri figli e allievi i "figli del vento" e non invece, che so, il viscido untuoso "Omino di burro" del Paese dei Balocchiset.

Sì, la vergogna. Di fronte alle deformazioni operate sull'immaginario infantile, sarebbe necessario provare quella vergogna di cui parlava Primo Levi, «la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». II giusto, dice Primo Levi. Certo, come fare a definirsi tali senza incappare in urtanti presunzioni? Non so. Ma so bene che questo non può in ogni caso costituire un alibi.

E altrettanto bene so che chiunque sia in qualche modo preposto alla trasmissione del sapere ‑ se non anche alla "educazione" ‑ di almeno un dovere si dovrebbe dotare, senza eccezione alcuna: il dovere di contribuire a costruire conoscenza.

La coltre di ignoranza in cui tutti noi gage (non zingari) siamo avvolti deve essere strappata via, perché è un doloroso atto d'accusa riguardante l'essenza profonda della nostra stessa funzione, nonché un documento di certificazione della nostra individuale dignità. Ha scritto Gùnther Grass: «Lasciate che mezzo milione o più di Rom e di Sinti vivano fra noi. Ne abbiamo bisogno. Potrebbero aiutarci a scompigliare un po' il nostro ordine così rigido. Potrebbero insegnarci quanto prive di significato siano le frontiere: incuranti dei confini, i Rom e i Sinti sono di casa in tutta Europa. Sono ciò che noi proclamiamo di voler essere: cittadini d'Europa. Forse ci servono proprio coloro che temiamo tanto».

(dall'editoriale di ècole numero 74 gennaio 2000 dossier su: Zingari bambini)

PICCOLE STORIE DI BIMBI ZINGARI NEI LAGER

Secondo un calcolo prudente si stima che i nazisti abbiano ucciso circa due milioni di bambini. Bambini dal futuro spezzato le cui storie, come ha scritto Primo Levi, «devono oggi restare per essere nutrimento vitale di chi si proponga di vegliare sulla coscienza e sull'avvenire del mondo»

Nell'aprile del 1943 il quattordicenne rom Robert Reinhard scriveva alle suore dell'asilo cattolico per l'infanzia Casa Nardini di Pirmasens dove era stato ospite per anni, di aver ritrovato i suoi genitori e la sorella Anna, di tre anni più giovane di lui: «Siamo in un trasporto per il campo dl concentramento. So cosa ci aspetta, i miei genitori no. Mi sono tormentato tanto interiormente che ora posso sopportare la morte. Vi ringrazio ancora per tutto il bene che mi avete fatto. Salutate tutti i compagni. Arrivederci in cielo». Anna e Robert, come i loro genitori, morirono poco dopo nelle camere a gas di Auschwitz.

Antoine Siegmeyer, detta Tonia, era nata il 12 giugno 1932. Di lei non resta altro che un fascicolo nell'archivio di stato di Norimberga, redatto dalla polizia criminale della Franconia centrale. Sono nove pagine: cominciano con una "dichiarazione peritale" firmata da Robert Ritter, direttore del Centro di ricerca per l'igiene della razza, che la identifica come "zingara meticcia", e terminano con una registrazione ad Auschwitz, dove la piccola rom fu solo più Z10803.

Otto Schmidt è uno dei sinti deportati a Buchenwald nell'estate del 1938. Aveva vent'anni e viveva con la sua famiglia e Unku, la moglie diciottenne e incinta, in un campo rom di Magdeburgo. Lavorava come ambulante e per questo venne arrestato. La madre di Otto, Augusta Laubinger, fece il possibile per liberarlo ma, nel novembre del 1942, ricevette la comunicazione che suo figlio era morto. Pochi mesi dopo anche la moglie di Otto e la loro bambina, che Otto non era riuscito a vedere, furono arrestati e deportati ad Auschwitz, dove morirono nei mesi seguenti. L'unico a ricordarli è un libro per bambini di Grete Weiskopf, Ede und Unku, divenuto poi, dopo la guerra, uno dei più popolari libri per l'infanzia dell'ex Repubblica democratica tedesca.

Helene W. aveva solo tredici anni quel mattino di maggio del 1940, quando fu arrestata con tutta la famiglia dalle SS e dalla polizia: «Così la mia infanzia era finita», dice in un'intensa testimonianza.

Sparire dalla faccia della terra

Robert, Anna, Antoine, la figlia di Unku e Otto, Helene sono solo cinque fra le migliaia di bambini rom e sinti che i nazisti hanno cercato di far sparire dalla faccia della terra insieme ai loro genitori e parenti. Perché sono centinaia di migliaia i rom e i sinti di ogni età vittime del nazismo, rinchiusi nei lager, uccisi nelle camere a gas, nelle esecuzioni di massa nei territori dell'est, seviziati dai terribili pseudo-esperimenti medici o dalla sterilizzazione coatta, o morti per fame, freddo, epidemie, bastonate, torture e lavoro forzato. Almeno cinquecentomila persone, e forse molte di più, furono uccise, condannate allo sterminio, alla "soluzione finale" solo per la loro appartenenza razziale, considerata, nei folli progetti di dominio nazionalsocialisti, come "impura" e "degenerata" e per questo da annientare. Fino a qualche anno fa, però, la storia dello sterminio di rom e sinti era storia negata, o solo accennata, tanto che furono persino esclusi dalle pratiche di risarcimento e indennizzo del dopoguerra: la maggior parte degli stessi storici, infatti, faticò non poco a accettare che anche i rom, al pari degli ebrei, erano stati condannati a morte dall'igiene razziale e non, come si cercava di far credere, da una presunta "asocialità" o "criminalità", simile a quella giudicata pesantemente ancora oggi.

Eppure, per i nazisti, i rom e i sinti erano geneticamente ladri, truffatori, nomadi: la causa della loro "pericolosità" era nel loro sangue che, ovviamente, precede i comportamenti. Per fortuna oggi decreti, leggi, lettere e materiali d'archivio documentano, in maniera abbastanza esaustiva, la vicenda della persecuzione del popolo rom durante il nazismo e ci restituiscono una storia di morte che va dalle perizie razziali del famigerato dottor Robert Ritter, iniziate già nel 1935, alla nomina di Heinrich Himmler a responsabile della "questione zingara" nel 1938, ai campi di concentramento e sterminio, passando per Auschwitz dove, dal marzo 1943, fu creata una sezione appositamente per i rom, lo "Zigeunerlager", interamente "liquidato" in una notte di agosto del 1944.

Anche i bambini rom, nonostante si parli di loro spesso solo marginalmente, seguirono il destino dei grandi nei ghetti e nei campi fin dalle prime deportazioni del 1936/37 a Marzahn (un campo di concentramento per rom e sinti allestito nei dintorni di Berlino in occasione delle Olimpiadi e dove le guardie e il custode Polenz si accanivano sui prigionieri con botte e percosse di ogni tipo), Biebrich, vicino a Wiesbaden, Hannover, Kassel, Francoforte sul Meno, Essen o Dachau...

Persino nel primo documento ufficiale che ordina la deportazione di massa di sinti e rom verso la Polonia (il cosiddetto Governatorato Generale), un decreto emanato e firmato da Himmler il 27 aprile 1940, un programma dettagliato indica ai diversi funzionari nazisti cosa fare con neonati e bambini: prima della loro deportazione a quelli di età superiore ai sei anni dovevano esser prese le impronte digitali mentre quelli di età superiore ai quattordici anni dovevano anche essere fotografati. Poi tutti dovevano essere tatuati e "trasferiti".

E da allora in poi i piccoli rom furono ovunque nella toponomastica del terrore nazista.

(Giovanna Boursier, Bambini nei lager, in école numero 74 Gennaio 2000, p.16. )

15 Maggio 2008 · Patrizio Oliva




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