Stop al patto di quota lite » Le disposizioni del Consiglio Nazionale Forense

Stop al patto di quota lite: validi i patti sui compensi parametrati ai risultati conseguiti, aventi ad oggetto, non una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, ma una percentuale del valore del bene controverso o del bene stesso.

Il patto di quota lite è, o meglio era, l’accordo tra professionista e cliente in virtù del quale il compenso del primo veniva calcolato in percentuale rispetto al risultato ottenuto dal suo assistito.

In pratica, accadeva che i compensi dovuti all'avvocato venivano parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti.

Nel caso di esito negativo della causa, all'avvocato non doveva essere corrisposto alcun compenso, mentre per quanto concerne le spese, come ad esempio, il contributo unificato per l’iscrizione a ruolo,le parti potranno decidere liberamente a chi porle a carico.

Ma, d'ora in poi, pagare l’avvocato solo in caso di successo della causa e in percentuale al risultato ottenuto è vietato.

Ciò è quanto stabilito dalla nuova legge professionale forense, la 247/2012.

A seguito della nuova disposizione, in caso di accordi di tale tipo tra il cliente e il legale, per quest’ultimo può addirittura scattare la sospensione dall'esercizio dell'attività.

Questo quanto chiarito dalla sentenza numero 225/2013 del Consiglio nazionale Forense.

In particolare, il Consiglio trova occasione per ribadire cosa sia consentito e cosa, invece, vietato dalla normativa più recente.

La legge, a sentire la pronuncia, vieta quello che, in gergo tecnico, è il cosiddetto patto di quota lite, ovvero l’accordo tra avvocato e cliente in virtù del quale il primo percepisce, quale compenso per l’attività espletata, una quota del bene oggetto della lite, a risultato ottenuto.

In pratica, è illecito l'accordo volto a spartirsi il ricavato al termine dell'incarico, quando l’ammontare di ciò che percepirà il cliente è ben chiaro e determinato.

Diversamente, è considerata valida la pattuizione con cui si stabilisce, in percentuale, il compenso dell'avvocato a monte dell'incarico, quando ancora né si conosce l’esito del giudizio, né tantomeno quanto il cliente percepirà in concreto.

Ad esempio, è considerato illecito l’accordo in cui il cliente promette al proprio legale il 20% di quanto il giudice gli riconoscerà in sentenza, nei confronti della controparte.

Al contrario, è valido il patto con cui il cliente promette all'avvocato il 20% di quanto egli, nella domanda giudiziale, chiede alla controparte, sebbene ancora non sappia l’importo concreto che, alla fine del giudizio, il giudice gli riconoscerà.

Dunque, la differenza tra lecito e illecito si gioca tutta sulla conoscenza, da parte di avvocato e cliente, di quanto quest’ultimo otterrà con la sentenza definitiva.

In parole povere, la percentuale può essere rapportata al valore astratto dei beni in contesa, ma non lo può essere al risultato concreto. Questo perché il legale non può partecipare al rischio della causa, vedendo aumentare, diminuire o addirittura annullarsi il proprio compenso a seconda di quanto, con la sentenza definitiva, il proprio cliente percepirà.

17 Giugno 2014 · Andrea Ricciardi


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