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Sono nullatenente: il 31 marzo la banca creditrice, dopo un’analisi dello stato patrimoniale della mia ditta individuale, mi ha revocato fidi per 120 mila euro, da un giorno all’altro, costringendomi a chiudere.
Il 7 luglio ho effettuato cessazione attività ed ora spero di riuscire a tirare un anno in modo da evitare il fallimento, in base appunto alla legge fallimentare per cui non si può più fallire trascorso un anno dalla cessazione.
Ad oggi la banca creditrice si è limitata a mandarmi una lettera di messa in mora e dove mi segnala funzionario ed ufficio legale che hanno in carico la mia pratica. A settembre si faranno vivi, per proporre un piano di rientro. Ora io sono indeciso se concordare un piano di rientro in modo da arrivare a far passare l’anno e poi smettere di pagare, oppure se evitare fin da subito qualsiasi accordo di rientro sperando che non mi facciano fallire.
La domanda è la seguente: una banca oggi per mettersi in perdita 120 mila euro mi fa fallire anche se sono nullatenente o si limita a cedere il credito? Quanto è concreta la possibilità insomma che mi facciano fallire se non mi accordo?
Com’è noto, non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
I piccoli imprenditori non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, anche se non in possesso congiunto dei requisiti appena elencati.
Il codice civile definisce piccolo imprenditore l’artigiano che esercita un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.
Lei sembra di essere sicuro di essere un soggetto fallibile e non possiamo che prenderne atto.
Comunque, chiedere il fallimento di un imprenditore comporta costi esorbitanti che devono essere anticipati dal creditore procedente. Nel caso di una banca, verrà certamente effettuata un’indagine patrimoniale per verificare la convenienza economica di una simile scelta: l’azione sul debitore fallito deve avere ottime possibilità di recupero almeno di una parte del credito.
Insomma, nel caso di un nullatenente, supposto anche che la ditta individuale non disponga di macchinari ed impianti che possano essere venduti all’asta, dubito che la banca creditrice si azzardi a chiedere il fallimento dell’imprenditore.
Per quanto riguarda l’eventuale cessione del credito, qualora un domani lei disponesse di beni pignorabili (stipendio, immobile, conto corrente) e il creditore cessionario dovesse procedere con decreto ingiuntivo, il suggerimento è quello di tentare opporsi, se è vero, e non abbiamo motivo di dubitarne, che non le è stato dato alcun preavviso in occasione della revoca dell’apertura di credito. Oppure valutare la possibilità di chiamare in causa la banca cedente il credito per risarcimento danni.
Infatti, secondo l’Arbitro Bancario Finanziario (ABF) la banca ha diritto di rivedere le condizioni del fido o revocarlo sulla base di un’analisi dello sviluppo complessivo del rapporto con il cliente.
Tuttavia, sempre secondo la giurisprudenza ABF (decisione 372/12), la banca deve preavvisare il cliente della imminente revoca del fido, così da salvaguardarne gli interessi.
Anche in caso di recesso per giusta causa o di esercizio di una clausola risolutiva espressa, il giudice può essere chiamato ad indagare la conformità a buona fede del comportamento della banca, per verificare che non sia stato compiuto un abuso del diritto secondo il quale l’interruzione brutale del credito bancario è causa di risarcimento del danno, ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti e arbitrari.
18 Agosto 2015 · Ornella De Bellis
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