Azione revocatoria – La parentela fra debitore ed acquirente è condizione per esercitarla

Il curatore fallimentare che intenda promuovere l’azione revocatoria ordinaria, per dimostrare che l'atto di disposizione, sul patrimonio effettuato dal debitore fallito, sia pregiudizievole per il recupero del credito, ha l’onere di provare tre circostanze:

  1. la consistenza del credito vantato dai creditori ammessi al passivo nei confronti del fallito;
  2. la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole;
  3. il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto.

Solo se dalla valutazione complessiva e rigorosa di tutti e tre questi elementi dovesse emergere che per effetto dell'atto pregiudizievole sia divenuta oggettivamente più difficoltosa l’esazione del credito, in misura che ecceda la normale e fisiologica esposizione di un imprenditore verso i propri creditori, potrà ritenersi verificati i presupposti necessari per poter esercitare l'azione revocatori dell'atto di disposizione del debitore.

Il venir meno delle garanzie reali che gli immobili rappresentano per i creditori rappresenta una variazione sia quantitativa che qualitativa del patrimonio del debitore e comporta una maggiore difficoltà o incertezza nella esazione coattiva del credito.

Inoltre, in tema di condizioni per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, la prova del requisito della consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi dei creditori può essere fornita anche mediante presunzioni, dovendosi, tra l’altro, attribuire rilievo al grado di parentela fra il debitore e gli acquirenti. In particolare, lo stretto rapporto di parentela tra il legale rappresentante della società fallita e gli acquirenti ha una precisa rilevanza ai fini dell’esclusione della buona fede.

Questo, in sintesi, l'orientamento messo nero su bianco dai giudici della Corte di cassazione nella sentenza numero 17821/14.

4 Settembre 2014 · Loredana Pavolini




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