America e dintorni

È ormai da circa un quindicennio che il mondo finanzia il boom economico statunitense, fondato sul modello borrow and spend (“prendi a prestito e spendi”), cui la crisi dei mutui subprime ha posto un brusco freno. Da un lato il deficit federale, accumulato mediante l’emissione di quantità industriali di titoli del debito pubblico, attualmente detenuti in gran parte dalle banche centrali asiatiche.

Dall'altro l’indebitamento privato, favorito dai bassi tassi d’interesse dell'era di Clinton e Greenspan (l’ex governatore della Federal Riserve, la banca centrale americana) e garantito sulle ipoteche immobiliari, che ha favorito i consumi interni e soprattutto ha reso possibile il boom del mattone, facendo intravedere il sogno americano della home ownership ad ampie fasce della popolazione, soprattutto immigrata, dalle finanze instabili: le prime a pagare lo scoppio della bolla, causata dalla loro stessa insolvenza.

A coronamento dei cosiddetti “deficit gemelli” – privato e pubblico – un dollaro in caduta libera sull’euro (grazie anche ai bassi tassi d’interesse, che hanno reso poco remunerativi gli investimenti nel biglietto verde, dirottandoli sulla valuta europea): una manna per gli esportatori statunitensi.

Ora l’economia presenta il conto: conto che rischia di essere piuttosto salato. Innanzi tutto, l’enorme esposizione dell'erario federale verso le banche centrali asiatiche (cinese in testa), detentrici di quote rilevanti del debito pubblico americano, comporta una dipendenza strategica degli Usa dalle economie emergenti (cfr. Limes numero 2/04). Detto in altri termini: la Cina, il maggior avversario strategico di medio-lungo periodo degli Usa, è oggi il paese cui gli stessi Stati Uniti devono più soldi. Il che, altre ad andare contro il buonsenso, costituisce una seria deroga all'imperativo strategico americano, formulato dai padri fondatori, di non legarsi le mani in alleanze e rapporti eccessivamente stretti con paesi d’oltreoceano (atlantico o pacifico poco importa).

In secondo luogo, secondo un copione fin troppo conosciuto dai paesi, come l’Italia, che per anni hanno praticato svalutazioni competitive, l’indebolimento della valuta nazionale accresce il costo delle importazioni -e dunque i prezzi- penalizzando i consumi. In questo caso peraltro quest’effetto di “inflazione importata” si fa sentire pesantemente sull’importazione di una materia prima vitale quale il petrolio, i cui scambi a livello mondiale avvengono in dollari e sul quale sono in corso pesanti manovre speculative da parte dei numerosi hedge funds (fondi d’investimento) danneggiati dallo scoppio della bolla immobiliare, che cercano ora di rifarsi delle perdite subite giocando al rialzo su greggio e oro.

Il dollaro debole e la minaccia inflazionistica, infine, spuntano le armi monetarie della Federal Riserve, al cui nuovo inquilino, Ben Bernanke, risulta piuttosto arduo replicare il “miracolo” del suo osannato predecessore. Prima ancora che l’aumento dei prezzi si rifletta sui tassi d’interesse a breve, infatti, è già in corso un rialzo dei tassi a lungo termine, perché, a fronte della debolezza della divisa americana e di tassi d’interesse ancora bassi, chi oggi investe a medio-lungo termine in attività denominate in dollari pretende garanzie sul ritorno futuro dei propri investimenti.

Ma se l’America piange, il mondo non può permettersi di ridere. Nonostante l’ascesa impetuosa dell'Asia, l’economia statunitense rappresenta ancora il principale motore della crescita mondiale. Se si ingolfa quel motore, è tutta l’economia mondiale a risentirne.

Novembre 12, 2007

Fabrizio Maronta su Limes

12 Novembre 2007 · Antonio Scognamiglio




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